domenica 16 maggio 2010

Citizen Journalism: falsità al gusto di luppolo


Giorni fa ho pubblicato un post "Nigeria: petizione contro senatore che ha sposato una tredicenne" che avevo letto già tradotto nella sezione Global Voices del sito de LaStampa. "Questo è un progetto globale senza fini di lucro centrato sui citizen media, ideato presso il Berkman Center for Internet and Society della Harvard University (Boston, USA), gruppo accademico di ricerca sul rapporto tra Internet e società. Dall'autunno 2008 Global Voices opera in maniera indipendente, registrato come ente non-profit in Olanda." Leggendo e spulciando fra gli articoli, mi sono imbattuta in quello che vi propongo qui di seguito, l'ho trovato interessante perché evidenzia le caratteristiche e i limiti del citizen journalism e lo fa in modo al contempo poetico e "analitico".


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Citizen Journalism: falsità al gusto di luppolo (qui)

di Riccardo Valsecchi

28
gennaio 2010

L’Ankerklause è una baracca sulle rive del canale della Spree che attraversa Kreuzberg. Ambiente rustico, coltre di fumo, odore di luppolo. Il mio angolo preferito è il tavolo all’entrata, sulla sinistra, dove la tenda a fili adornata da finte perle blu fa pendant con il divano e con il buio della notte berlinese. Una volta, in quell’angolo, ho intervistato una poetessa boliviana. Indossava un maglioncino blu e sulle labbra portava un tratto quasi invisibile di rossetto color mare che sembrava riflettersi sullo sfondo. Noir.

Ieri sera stavo seduto a lavorare proprio a quel tavolo quando è arrivata una mail insolita: “Dear Mr. Valsecchi…sono uno studente presso l’Università di Dublino e desidererei intervistarla in merito alla sua attività per la testata giornalistica online Digital Journal.” Di fronte a me sedeva Thomas: sulla sessantina, capelli lunghi, trasandati e un poco unti, barba sfatta, cicca di sigaretta sorretta tra le labbra nascoste in mezzo a un paio di baffoni ingialliti dalla nicotina.

Thomas è uno scrittore, almeno così dice, perché io non ho mai letto nulla di suo. Sul tavolo però, accanto al boccale di pilsener che la cameriera provvede sempre a mantenere stracolmo, tiene una penna e un foglio bianco. Thomas odia i computer, il rumore della ventola della CPU lo infastidisce e non capisce affatto il senso e l’ossessione per Internet. Nonostante questo, benché io abbia l’abitudine di lavorare contemporaneamente con un laptop da 15” pollici e un netbook su cui tengo tutti gli appunti di viaggio, finisce sempre, tra un improperio e l’altro, per sedermi vicino, dicendo che costituisco una fonte d’ispirazione per il suo lavoro: sostiene che nei miei occhi, intenti a osservare lo schermo widescreen di fronte, vede l’ineluttabile tristezza e rassegnazione della tecno-generazione di cui a suo parere faccio parte. Ogni tanto, quando è troppo ubriaco per accorgersene, alzo lo sguardo per sbirciare che cosa stia scrivendo, ma il foglio che ha di fronte, a parte qualche macchia di birra e qualche sputacchio, rimane sempre completamente bianco.

Quando ho ricevuto la mail di cui sopra, all’inizio mi sono sentito lusingato, quasi commosso: “Ehi Thomas, guck mal, guarda qui,” con una punta d’orgoglio. Lui nulla, un sorriso ebete da alcolizzato. Demoralizzato, ho chiuso il laptop, e ho fissato quello straccio d’uomo con risentimento. Poi però, all’improvviso, un inspiegabile senso di disperazione, mortificazione, paura mi ha colto. Un incubo: “Che cosa mi sta succedendo Thomas?” Per la prima volta da quando lo conosco, ho visto il mio amico prendere in mano la penna e scalfire con la punta il foglio di fronte.

Digital Journal è un aggregatore di news che si basa sul concetto di “giornalismo partecipativo”, “citizen journalism” in inglese.

Che cosa è il giornalismo partecipativo?

È quel modello d’informazione che prevede la partecipazione attiva dei lettori sia come fornitori di materiale, sia come commentatori: gli utenti s’iscrivono al sito web e sono abilitati alla pubblicazione di news, post, storie, foto e video su eventi vari, nonché a commentare gli articoli altrui. In pratica i lettori stessi sono i creatori dei contenuti che arricchiscono il sito. Digital Journal è solo una delle tante testate online che hanno adottato questa politica, anche se dalla maggior parte si distingue, in quanto elargisce una cifra, sebbene irrisoria, ai propri utenti/collaboratori in base al numero di visitatori e ai voti accumulati nei singoli articoli. I più interessanti esperimenti in Italia di citizen journalism sono “Fai La Notizia” di Radio Radicale e “Youreporter”: nessuno di essi prevede un compenso.

Il giornalismo partecipativo si basa su due grandi falsità: che tutti quanti sono in grado di fare informazione e che più la possibilità di fare informazione è allargata, più è garantito lo spirito democratico.  Equivale a dire che tutti quanti siamo in grado di fare i medici e che più è data la possibilità di esercitare la professione medica, anche a chi non ha attestato professionale, più è garantita la possibilità di sopravvivenza: se fosse così, io stesso, che distinguo a fatica un gomito da un ginocchio, e che curo entrambi con un cocktail micidiale di 600 mg di ibuprofene, 300 mg di ketoprofene e 300 mg di naprossene, probabilmente avrei una marea di ulcerati sulla coscienza.

Il giornalista è una professione e come tale deve essere trattata: sapere scrivere è un elemento essenziale, ma non basta. Esistono regole, metodologie, prassi che l’operatore impara a rispettare durante un lungo periodo formativo – in Italia, tanto per cambiare, quasi sempre anch’esso non retribuito – e che richiedono non solo l’adeguamento a una prassi stilistica e contenutistica consolidata, ma anche delle competenze intrinseche che ne veicolano l’operato. Prima di tutto tecniche: il professionista deve conoscere il mezzo con cui opera, che esso sia la penna, una macchina da scrivere, un laptop, una camera fotografica o una videocamera. In secondo luogo strutturali: una notizia, per quanto banale, ha sempre e comunque mille sfaccettature che, presentate in maniera inconsapevole, possono generare un surplus di significati non desiderato. Quanti non operatori del settore conoscono la differenza tra l’uso attivo e passivo della frase? Ebbene, il professionista sa che le sentenze “X ha ucciso Y” e “Y è stato ucciso da X” comportano un investimento semantico differente rispetto al ruolo dei due soggetti, a seconda dell’importanza che si voglia dare alla figura attanziale dell’“omicida” o della “vittima”. Poi contenutistiche: ogni dato deve essere provato e comprovato da più fonti; ogni fonte deve essere reperibile in qualsiasi istante; ogni intervista deve essere registrata e archiviata in modo tale da poter essere sempre disponibile in caso di contestazione; il giornalista, benché sia ovvio che l’obiettività non esiste, non è un opinionista e deve essere in grado di svolgere un contenuto secondo una logica formale adeguata. Questi sono solo alcuni dei mille assiomi che la deontologia professionale impone e che il “citizen reporter” non ha la preparazione adeguata per svolgere. Non è una constatazione o un giudizio di valore: io personalmente non posso fare l’idraulico, come testimonierebbe anche la mia vicina che si è vista filtrare l’acqua dal soffitto quando ho avuto l’idea malsana di cambiare la disposizione dei tubi del lavabo. Non conosco la tecnica, la procedura, gli strumenti, nemmeno la normativa, come diavolo posso pretendere d’improvvisarmi idraulico solo perché mi è concessa la possibilità di comprare dei tubi in saldo all’OBI vicino a casa?



Inoltre, ciò che l’utente partecipativo crede essere lo strumento democratico per eccellenza, è invece un’incredibile macchina di consenso per la testata che lo utilizza. Il concetto è semplice: se il successo e la potenza di un sito web sono riposti nella sua reperibilità nei motori di ricerca, la quale a sua volta dipende dalla quantità di contenuti presentati, oltre che alla loro diffusione e condivisione, allora quale modo migliore di quello che induce gli utenti a generare una pluralità infinita di contenuti? Non importa la qualità, non importa le competenze, non importano le fonti: essenziale è indurre i fruitori a creare, creare e creare, nella consapevolezza che ogni nuovo testo significa accrescere il proprio bacino d’utenza e, da non dimenticare, il proprio tornaconto economico. Immaginate che cosa significhino, in termini di denaro, 150-200 post gratuiti, i quali producono nell’arco di una giornata un valore che oscilla tra le 50 alle 200 visite ciascuno, per un sito il cui guadagno è assicurato dalla vendita di spazi pubblicitari secondo il modello “payperclick”, ovvero l’inserzionista paga una tariffa unitaria in proporzione ai click sul proprio banner?


Esempio di quanto il citizen journalism possa essere uno strumento ambiguo di consenso è rappresentato dalla sua variante, che prevede una partecipazione limitata del lettore ad alcuni argomenti scelti dalla redazione. In Italia il campione di questa tipologia è Repubblica.it, il quotidiano online diretto da Vittorio Zucconi. È interessante notare come la testata, la quale si fa portavoce di un’iniziativa per la libertà di stampa, richieda la collaborazione del lettore solo là dove essa è più funzionale alla propria linea politica, come nel caso della campagna “Siamo tutti fannulloni” – 156 gallerie per 25 foto l’una, 3.900 utenti coinvolti -, “No-B Day”, ecc. Facendo ciò, Repubblica.it usufruisce di contenuti e focalizza l’attenzione dell’utente solo su alcuni argomenti dei quali il lettore/citizen journalist, essendo reso partecipe, diventa promotore e diffusore: aldilà delle visioni politiche personali, è questo un modello democratico d’informazione?

“Perché hai deciso di scrivere per Digital Journal?” chiede il giovane studente.

Perché voglio sopravvivere. Non esiste alternativa in un mercato che sta puntando più sulla quantità che sulla qualità; ma di questo, non ne sono affatto colpevoli i giornalisti, piuttosto è una politica decisa dagli editori e che rispecchia la volontà dei lettori. Ma quanto consapevole è questa volontà dei meccanismi in cui è inserita?

È ormai notte inoltrata, lascio Thomas che dorme col capo rivolto sul tavolo e un rigolo di bava, non ancora vomito, che gli esce dalla bocca. Non lo sveglio, tanto non si ricorderebbe nemmeno come mi chiamo. Mi avvio verso la fermata di Kottbusser Tor, un po’ disgustato dal sapore di luppolo e dall’odore di fumo sui vestiti. Fa un freddo boia e la neve, che ho sempre amato e che qui ho imparato a odiare, cade ancora incessantemente.



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