lunedì 30 agosto 2010

L'eco del silenzio su Radio Libriamoci Web: Sudan, aspettando il referendum


L'eco del silenzio 

su Radio Libriamoci Web


trasmissione del 7 dicembre 2010


Sudan, aspettando il referendum (qui)

da PeaceReporter
19/08/2010
Paralisi politica, strani spostamenti di popolazione e ritardi nei preparativi: così il gigante africano si avvicina al suo D-Day


Il conto alla rovescia è già cominciato. Tra meno di cinque mesi il Sudan saprà se sarà riuscito a voltare pagina o se invece rischierà di riprecipitare negli abissi di una guerra civile che ha lacerato il Paese per oltre quarant'anni. Se lo chiedono i sudanesi, soprattutto quelli del Sud, visto che il referendum del 9 gennaio verterà proprio sull'indipendenza della parte meridionale di quello che è il più grande stato africano, attualmente beneficiaria di una larga autonomia ottenuta con gli accordi di Nairobi, che sempre il 9 gennaio, ma del 2005, misero fine alla violenza. Proprio allora si decise di sottoporre a referendum l'opzione indipendentista.
Questioni insolute. Nel frattempo si sarebbero dovute risolvere una serie di questioni, alcune delle quali molto importanti, come la definizione delle frontiere interne e della proprietà sui vasti giacimenti di idrocarburi, vale a dire petrolio, di cui è ricco il sud e al quale il potere centrale non vuole rinunciare.
E questo spiega la tensione strisciante di questi giorni. C'è nervosismo a Juba, la capitale della Sudan meridionale, dove in pochi credono che gli attori principali possano trovare un compromesso. Non c'è fiducia nel Partito nazionale del Congresso, quello del presidente Omar Al Bashir, nè si conta sulla duttilità degli indipendentisti, il Movimento di liberazione del popolo del Sudan che da parte sua non riesce a trovare una sintesi tra le sue varie anime. I leader che compongono l'ufficio politico del partito si sono chiusi l'11 agosto in una riunione blindata da cui non è filtrata nessuna indiscrezione, se non la certezza che un accordo non è stato raggiunto. Rischia la paralisi anche la Commissione per il referendum, bloccata dal braccio di ferro tra cinque rappresentanti del Sudan del Sud che chiedono per la loro area la presidenza dell'organo, attualmente ricoperta da Mohammed Khalil Ibrahim, uomo del nord. Tutto è in alto mare, ma si pensa già ai simboli del nuovo stato come la bandiera, l'inno per il quale è stato indetto un concorso e soprattutto al nome, segno che l'esito, almeno al sud, è dato per scontato.

Petrolio e tribù. Voci allarmate raccontano di un contesto segnato da una grande confusione, con i preparativi che non procedono affatto, nonostante l'ora X si avvicini. E allora cresce il timore che in questo vuoto possa trovare spazio la violenza. Contestualmente si terrà un referendum anche ad Abyei, regione collocata sulla frontiera nord-sud, grande più o meno quanto il Libano. Qui si dovrà decidere se far parte della metà settentrionale o di quella meridionale. E il conflitto geografico, che ne nasconde uno per le risorse, fa presto a diventare etnico, più precisamente tra gli Ngok Dinka, che nella guerra civile del 1983-2005 si sono schierati con i ribelli del sud, e i Missereya, tribù di pastori nomadi che appoggiarono Karthoum. Scontri con morti si sono già registrati agli inizi di luglio, mentre hanno cominciato a circolare voci che il potere centrale stia aiutando i Missereya a insediarsi ad Abyei per cambiare gli equilibri etnici e garantire al nord il controllo di una regione strategica. Allo stesso modo, il governo del Sud sta lanciando un programma per far rientrare quella marea di profughi fuggiti al nord durante la guerra civile: oltre un milione e mezzo di persone da riportare a casa con treni, aerei, autobus. "Non è una mossa politica - si affrettano a precisare le autorità - ci stiamo muovendo solo per ragioni umanitarie". Ragioni che dovrebbero proprio sconsigliare una mossa del genere, visto che nel Sud si trovano già 4,3 milioni di persone che hanno bisogno di cibo e assistenza. Probabile quindi che il vero obiettivo sia quello di consolidare gli equiliobri etnici attuali, che garantirebbero il successo dell'opzione indipendentista. Che Karthoum difficilmente concederà, perché nel Sud si concentrano buona parte delle risorse petrolifere e perché la secessione del Sud potrebbe riaccendere altri fronti secessionisti, a ovest, nel Darfur più precisamente, e nella parte orientale dove, nelle regioni del Mar Rosso, Al Qaradif e del Kassala, sono attivi gruppi di ribelli che contestano al governo centrale l'iniqua distribuzione delle rendite petrolifere. Una situazione potenzialmente esplosiva, soprattutto se si considera la posizione del Sudan sullo scacchiere internazionale, una potenza regionale in crescita, entrata in rotta di collisione con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Non sono poche le forze che sarebbero felici di scommettere su un collasso del Paese. E una eventuale guerra, sarebbe l'occasione per sbarazzarsi definitivamente di al Bashir, sul quale pesa già un mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale.

Alberto Tundo

Come back




Si torna al blog e alla necessità che questo sia aggiornato, mi scuso per alcune trasmissioni non ancora pubblicate (ma che verranno comunque inserite) e mi affretto a postare l'ultimissima "puntata" messa "on air" la settimana appena trascorsa.

La pausa estiva è ormai ufficialmente terminata e si torna alle vecchie e piacevoli abitudini informative.
Un saluto ai naviganti sia del web che delle onde radio e... 
A presto!

Lucia



martedì 15 giugno 2010

L'eco del silenzio su Radio Libriamoci Web: Lo sbarco della nave dei diritti & Rapporto Amnesty International 2010


L'eco del silenzio 

su Radio Libriamoci Web


trasmissione del 1 giugno 2010


Lo sbarco della nave dei diritti



Lo spazio di questa settimana tratterà ben due argomenti, quindi passiamo senza ulteriori indugi ai contenuti delle due notizie.
La prima riguarda un iniziativa chiamata "Lo sbarco", il nome richiama quello dell'impresa dei Mille a 150 anni dalle imprese garibaldine: però i Mille questa volta, partiranno dalla Spagna per arrivare a Genova. Sarà un'invasione civile e non militare a bordo della "nave dei diritti" ed avrà luogo il prossimo 25 giugno. I consensi a questa manifestazione si stanno moltiplicando, come anche le adesioni, fra le quali si trovano quelle di personalità di spicco nel panorama culturale o dell’impegno civile italiano. Fra queste possiamo ricordare il nobel Dario Fo, Moni Ovadia, Franco Battiato, Don Gallo, Beppe Grillo, Luigi De Magistris, Erri De Luca, Gianni Barbacetto, Lella Costa, Paolo Rossi e molti altri ancora, oltre a diverse associazioni attive nel sociale e Ong. come Peace Reporter o Emergency.
L'idea dello sbarco nasce da un gruppo di italiani che vivono a Barcellona ed al gruppo originale, si è unita anche una rappresentanza di italiani di Bruxelles e una di italiani a Parigi.

Quello che mi appresto a leggervi è il Manifesto reperibile nel sito www.losbarco.org, vi consiglio di vedere anche i video di adesione delle varie personalità.

Siamo un gruppo di italiani/e che vivono a Barcellona.
Insieme ad amici (non solo italiani) assistiamo seriamente preoccupati a ciò che avviene in Italia. Certo la crisi c’è anche qua, ma la sensazione è che la situazione nel nostro Paese sia particolare, soprattutto sul lato culturale, umano, relazionale.
Il razzismo cresce, così come l’arroganza, la prepotenza, la repressione, il malaffare, il maschilismo, la diffusa cultura mafiosa, la mancanza di risposte per il mondo del lavoro, sempre più subalterno e sempre più precario. I meriti e i talenti delle persone, soprattutto dei giovani, non sono valorizzati. Cresce la cultura del favore, del disinteresse per il bene comune, della corsa al denaro, del privato in tutti i sensi.
In Spagna, negli ultimi mesi, sono usciti molti articoli raccontando quello che avviene in Italia, a volte in toni scandalistici, più spesso in toni perplessi, preoccupati, sconcertati.
Si è parlato dei campi Rom bruciati, dei provvedimenti di chiusura agli immigrati, delle aggressioni, dell’aumento dei gruppi neofascisti, delle ronde, dell’esercito nelle strade, della chiusura degli spazi di libertà e di democrazia, delle leggi ad personam.
Dall’estero abbiamo il vantaggio di non essere quotidianamente bombardati da un’informazione (??) volgare e martellante, da logiche di comunicazione davvero malsane.
E allora: che fare? Prima di tutto capire meglio, confrontarci, quindi provare a reagire. Siamo convinti che ci siano migliaia di esperienze di resistenza, di salvaguardia del territorio, di difesa dei diritti, della salute, di servizi pubblici di qualità. E che vadano sostenute.
Al termine di un percorso che abbiamo appena iniziato, vogliamo quindi organizzare una nave che parta da Barcellona il 25 giugno 2010 e arrivi a Genova.
Sarà la nave dei diritti, che ricorderà la nostra Costituzione e la sua origine, laica e pluralista, la centralità della libertà e della democrazia vera, partecipata, trasparente: dai luoghi di lavoro alle scuole, ai quartieri, ai servizi, al territorio. Ricorderà che il pianeta che abbiamo è uno, è questo, questo è il nostro mare, di tutti i popoli. Che chiunque ha diritto di esistere, spostarsi, viaggiare, migrare, come ha diritto che la sua terra non sia sfruttata, depredata. Ricorderà che le menzogne immobilizzano, mentre la verità è rivoluzionaria.
Ricorderà che cultura e arte sono i punti più alti del genere umano, sono fonte di gioia e piacere per chi li produce e per chi ne beneficia, non sono fatte per il mercato.
Ricorderà che esistere può voler dire resistere, difendere la propria e l’altrui dignità, conservare la lucidità, il senso critico e la capacità di giudizio.
Creiamo ponti, non muri.
È un grido di aiuto e solidarietà, che vogliamo unisca chi sta assistendo da fuori a un imbarbarimento pericoloso a coloro che già stanno resistendo e non devono essere lasciati/e soli/e.
Non siamo un partito, non siamo una fondazione, non sventoliamo bandiere, tanto meno bianche. Siamo piuttosto un movimento di cittadini/e che non gode di alcun finanziamento.
Potete contattarci fin da subito all’indirizzo e-mail: contatto@losbarco.org

Vi ricordo ancora una volta il programma.
L'imbarco sarà venerdì 25 GIUGNO a Barcellona dalle 22:00 fino alle 23:30 mentre la partenza è prevista per le 23 e 30. L’arrivo è previsto a Genova intorno alle ore sei di sera di sabato 26.
Il viaggio in nave dura circa diciotto ore, quindi il vero e proprio "sbarco" avverrà il 26 giugno al porto di Genova.
Nella capitale ligure gli emuli delle camicie rosse verranno ricevuti dal comitato d'accoglienza.
Brega uno degli organizzatori ha ricordato: "Inutile avere mille persone nella nave, se poi a Genova non c'è nessuno che li aspetta".
Chi vuole aderire al manifesto può firmare sul sito o unirsi al gruppo su Facebook), mentre il viaggio vero e proprio avrà un costo tra i 45 e 60 euro a persona. Durante la traversata si terranno discussioni e spettacoli sui temi più sensibili per la società civile (si sta tenendo una consultazione pubblica sul sito www.losbarco.org per deciderli nel dettaglio). Una volta arrivati nella capitale ligure ci sarà un concerto il 26 giugno, mentre il 27 i dibattiti pubblici continueranno in cinque piazze.

Rapporto Amnesty International 2010


La seconda notizia riguarda invece il rapporto 2010 per l’Italia di Amnesty International, uscito pochi giorni fa e al quale ha fatto seguito una secca smentita del ministro Frattini riportata da Repubblica il 27 maggio.
"L'Italia è certamente il paese europeo che ha salvato più persone in mare". [Così il ministro degli Esteri Franco Frattini, da Caracas contesta il rapporto annuale di Amnesty International sui diritti umani, che accusa l'Italia di aver messo a repentaglio la vita dei migranti con la politica dei "respingimenti".] "E' un rapporto indegno, che respingo al mittente - continua Frattini - Amnesty ha fatto sempre la sua parte, ma i nostri dati sono molto chiari". Per questo, secondo il titolare della Farnesina, questo rapporto è "indegno per il lavoro dei nostri uomini e delle nostre donne delle forze di polizia che ogni giorno salvano le persone, tutto il contrario di quello che dice Amnesty".

Credo che possa essere utile al fine di formulare una propria opinione in merito quantomeno la conoscenza del testo che è stato così seccamente contestato e bollato come “indegno” dal Ministro.
I Rapporti Annuali, pubblicati ogni anno da ciascuna delle Sezioni nazionali di Amnesty International, analizzano la situazione dei diritti umani nel mondo. Alla introduttiva panoramica generale sulle macroaree in cui sono raggruppati gli stati, segue una scheda specifica per ognuno di questi.


Rapporto Annuale 2010: ulteriori informazioni e aggiornamento sull'Italia (gennaio 2009 - maggio 2010)

Diritti di migranti e richiedenti asilo
Legislazione sull'immigrazione e sull'asilo
La Legge 94/2009, entrata in vigore nell'agosto 2009 come ultima tranche del cosiddetto "pacchetto sicurezza", ha introdotto il reato di ingresso e soggiorno irregolare, punibile con un'ammenda da 5000 a 10.000 euro. La legge potrebbe dissuadere gli immigrati irregolari dal denunciare i reati subiti e ostacolare il loro accesso a istruzione, cure mediche e altri servizi pubblici per il timore di denunce. Una circolare del ministero dell'Interno del novembre 2009 ha chiarito che persiste per i medici e il personale operante presso le strutture sanitarie il divieto di segnalazione alle autorità, degli immigrati che accedono alle cure mediche. Lo stesso ministero ha anche reso noto che il permesso di soggiorno non è necessario per l'iscrizione di un bambino all'asilo nido.

Non sono state emanate le regole di attuazione delle norme sull'asilo introdotte nel 2008 dai decreti legislativi che attuano le Direttive europee in materia di procedure d'asilo e qualifica di rifugiato. Esse sarebbero utili anche ai fini dell'efficacia della norma sull'effetto sospensivo (che consente al richiedente asilo di vedere la propria espulsione sospesa durante il tempo del ricorso contro il rigetto della domanda di asilo in prima istanza).
Rinvio forzato dei richiedenti asilo
Nell'aprile 2009, disquisizioni di diritto internazionale marittimo tra Italia e Malta sono state anteposte al salvataggio delle vite umane di 140 migranti e richiedenti asilo messi in salvo dalla nave cargo turca Pinar. La nave non è stata fatta entrare in porto da Malta né dall'Italia e i migranti sono stati lasciati al loro destino per quattro giorni, senza acqua e cibo a sufficienza, accampati sul ponte della nave, ottenendo infine il permesso dall'Italia di raggiungere Porto Empedocle.

A partire da maggio 2009, le autorità italiane hanno trasferito in Libia migranti e richiedenti asilo intercettati in mare sulla base dell'accordo di "Amicizia, partenariato e cooperazione" concluso nell'agosto 2008 tra Italia e Libia e degli accordi tecnici di dicembre 2007 sul pattugliamento marittimo congiunto per mezzo di navi della Guardia di Finanza fornite dall'Italia.

La Libia non è parte della Convenzione sui rifugiati del 1951 e non ha una procedura di asilo, circostanza che ostacola la possibilità di ricevere protezione internazionale nel paese. Secondo i dati del governo italiano, tra maggio e settembre del 2009, 834 persone intercettate o soccorse in mare sono state portate in Libia. Lo stesso governo italiano ha comunicato al Comitato europeo contro la tortura che tra le persone "riconsegnate" alla Libia vi erano decine di donne, almeno una delle quali in stato di gravidanza, e diversi minori.
Nel rendere pubblico, nell'aprile 2010, il proprio rapporto sulla visita effettuata in Italia nel luglio 2009, il Comitato ha esortato l'Italia a rivedere la prassi dei rinvii forzati in Libia e ad assicurare che alle persone intercettate in mare si garantiscano l'assistenza umanitaria e medica necessaria, l'accesso alle procedure d'asilo e il rispetto del principio di non-refoulement (divieto di rinvio di una persona verso un paese in cui potrebbe essere a rischio di subire gravi violazioni dei diritti umani). La politica dei rinvii forzati ha provocato una drastica riduzione delle domande d'asilo presentate all'Italia, passate da 31.000 del 2008 alle circa 17.000 del 2009 (fonte: Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati).
Discriminazione
Diritti umani dei rom
Ai rom di nazionalità italiana, europea e di altri paesi è stato negato un equo accesso all'istruzione, all'alloggio, alle cure mediche e all'occupazione e sono proseguiti in diverse città, tra cui Milano e Roma, gli sgomberi forzati illegali, con il conseguente aggravarsi della condizione di povertà delle comunità colpite. In diversi casi, gli sgomberi non sono stati preceduti da un'adeguata consultazione e da un congruo preavviso, né formalizzati secondo la legislazione interna, impedendo in questo modo l'accesso a rimedi giudiziari.

Queste politiche si basano sulla dichiarazione dello stato di emergenza relativo alle "popolazioni nomadi", che a partire dal 2008 ha attribuito poteri speciali ai Prefetti di Campania, Lazio e Lombardia, estendendoli dal maggio 2009 a quelli di Piemonte e Veneto. Nel luglio 2009, il Comune e il Prefetto di Roma hanno lanciato il "Piano nomadi", che prevede il trasferimento di 6000 rom (su 7177 residenti nei campi, secondo un censimento considerato incompleto da più parti) in 13 campi definiti "villaggi" nella periferia della città, con il conseguente smantellamento di circa 100 campi "abusivi" e "tollerati". In questo modo, il "Piano nomadi" spiana la strada allo sgombero forzato di migliaia di rom, con possibili conseguenze sul percorso scolastico dei bambini e sulle prospettive di impiego. Non per tutti è previsto un alloggio alternativo, almeno 1200 rom sono destinati a essere esclusi dal "Piano nomadi". Per questi motivi esso, nella sua attuale formulazione, non rispetta gli obblighi dell'Italia di garantire che non vi sia discriminazione né segregazione abitativa e di non utilizzare gli sgomberi come misura punitiva per chi è sprovvisto di permesso di soggiorno.
Migranti
Nel gennaio 2010, oltre un migliaio di migranti sono fuggiti o sono stati trasferiti forzatamente fuori da Rosarno, in Calabria, dopo due giorni di violenti scontri con i cittadini del luogo, al termine dei quali diverse decine di persone tra migranti, rosarnesi e agenti di polizia hanno avuto bisogno di cure ospedaliere. Sussiste il timore che le cause di fondo di questi fatti risiedano, da un lato, nel massiccio sfruttamento dei migranti impiegati nell'agricoltura e, dall'altro, nella mancata adozione da parte delle autorità italiane di misure concrete per contrastare la xenofobia in aumento in tutto il paese.
Omofobia
Secondo le organizzazioni per i diritti delle persone Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender), nel 2009 si è registrato un incremento dei crimini basati sull'intolleranza nei confronti di queste ultime. Nel corso dell'anno i mezzi d'informazione hanno riportato una serie di notizie relative ad attacchi omofobici avvenuti in diverse città italiane, tra cui Pordenone, Firenze, Bologna, Pavia e Roma. Le autorità italiane dovrebbero contrastare con maggiore decisione gli atteggiamenti omofobici in modo da garantire una maggiore sicurezza alle persone Lgbt.
Controterrorismo e sicurezza
Le autorità italiane non hanno collaborato pienamente alle indagini sulle violazioni dei diritti umani commesse nel contesto delle rendition.

Il 4 novembre 2009, il tribunale di Milano ha condannato in primo grado 22 agenti della Cia, un ufficiale militare statunitense e due agenti dei servizi dell'intelligence militare italiana (l'ex Sismi) per il rapimento di Abu Omar, trasferito illegalmente in Egitto nel 2003 e lì detenuto segretamente per 14 mesi. Il segreto di stato posto sulla vicenda dall'attuale governo e dal precedente ha determinato il non luogo a procedere per il direttore del Sismi all'epoca del rapimento, per il suo vice e per altri tre imputati italiani.

Il governo ha accettato il rientro in Italia di Adel Ben Mabrouk e Riadh Nasseri, due cittadini tunisini detenuti senza accusa a Guantánamo. Dopo l'arrivo, il 30 novembre 2009, sono stati posti in custodia cautelare perché accusati di reati connessi al terrorismo, commessi in Italia.

Nonostante le raccomandazioni degli organismi internazionali, l'Italia ha continuato a dare attuazione alla normativa che prevede una procedura accelerata di espulsione per presunti terroristi (Legge 155/05, c.d. Legge Pisanu). Sulla base di questa e di altre norme, anche nel 2009 le autorità italiane hanno rimpatriato in Tunisia, paese con una lunga e ben documentata storia di tortura e abusi sui prigionieri, persone per le quali la Corte europea dei diritti umani aveva richiesto la sospensione del rimpatrio, in vista dei rischi di tortura e maltrattamenti: tra queste, Ali Ben Sassi Toumi, espulso il 2 agosto 2009 nonostante tre distinte decisioni contrarie della Corte, sottoposto a detenzione in incommunicado per otto giorni dopo il suo arrivo in Tunisia. Il 24 febbraio 2009, la stessa Corte ha condannato l'Italia per avere rimpatriato Sami Essid Ben Khemais in Tunisia nel 2008, a dispetto di una sua decisione di segno opposto e per essersi affidata alle cosiddette "assicurazioni diplomatiche" da parte della Tunisia secondo le quali Ben Khemais non sarebbe stato torturato. Analoga decisione è stata adottata il 13 aprile 2010, relativamente all'espulsione di Mourad Trabelsi, a sua volta avvenuta nel 2008 in spregio di una decisione opposta della Corte.
Tortura e maltrattamenti; responsabilità delle forze di polizia per l'uso della forza e delle armi
A distanza di oltre 20 anni dalla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, l'Italia resta priva di uno specifico reato di tortura nel codice penale. Di conseguenza, gli atti di tortura e maltrattamenti commessi dai pubblici ufficiali nell'esercizio delle proprie funzioni vengono perseguiti attraverso figure di reato minori (lesioni, abuso d'ufficio, falso ecc.) e puniti con pene non adeguatamente severe e soggetti a prescrizione.

L'Italia non ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione, che imporrebbe l'adozione di meccanismi di prevenzione della tortura e dei maltrattamenti, tra cui un'istituzione indipendente di monitoraggio sui luoghi di detenzione, e non si è dotata di un'istituzione indipendente per il monitoraggio sui diritti umani né di un organismo indipendente di denuncia degli abusi della polizia. Tuttora non dispone di regole per l'identificazione degli agenti di polizia durante le operazioni di ordine pubblico.

Sono pervenute frequenti denunce di tortura e altri maltrattamenti commessi da agenti delle forze di polizia, nonché segnalazioni di decessi avvenuti in carcere in circostanze controverse.

Nel giugno 2009, 10 agenti della polizia municipale di Parma sono stati rinviati a giudizio per lesioni, aggressione, sequestro di persona, calunnia, falsa testimonianza e altri reati minori per il pestaggio di Emmanuel Bonsu, cittadino del Ghana, avvenuto nel settembre 2008. Bonsu ha riferito insulti razzisti e riportato danni a un occhio.
Il 6 luglio 2009, quattro agenti della polizia di stato sono stati condannati in primo grado per l'omicidio colposo di Federico Aldrovandi, 18 anni, morto nel settembre 2005 a Ferrara mentre si trovava in stato di fermo. Nel marzo 2010, tre agenti di polizia accusati di aver aiutato i colleghi accusati dell'omicidio di Aldrovandi a nascondere e falsificare le prove, sono stati condannati con rito abbreviato per favoreggiamento e omissione di atti d'ufficio.

Il 14 luglio 2009, un agente della polizia stradale è stato condannato in primo grado dal Tribunale di Arezzo per l'omicidio colposo di Gabriele Sandri, ucciso nel novembre 2007 da un colpo di pistola.

Il 22 ottobre 2009, Stefano Cucchi è morto nel reparto penitenziario dell'ospedale Sandro Pertini di Roma, sette giorni dopo il suo arresto. Secondo la famiglia, le ferite rilevate sul suo corpo dopo il decesso mostravano i maltrattamenti subiti. Nell'aprile 2010 è stata chiusa l'indagine preliminare, che ha escluso le accuse di omicidio. Restano in piedi le accuse di omissione di soccorso aggravata dalla morte del paziente, lesioni personali e falso.

Nel dicembre 2009, l'indagine per omicidio nel caso di Aldo Bianzino, morto in carcere a Perugia a ottobre 2007, si è conclusa con un'archiviazione. L'autopsia sul corpo di Bianzino aveva rivelato un'emorragia cerebrale e lesioni al fegato. Nel giugno 2010 si aprirà il processo nei confronti di un agente della polizia penitenziaria in servizio la notte in cui Bianzino morì, accusato di omissione di soccorso e falso.

Processi per il G8 di Genova 2001
Il 5 marzo 2010 è stata emanata la sentenza di appello per le brutalità commesse durante il G8 di Genova del 2001 nei confronti di oltre 200 detenuti nel carcere provvisorio di Bolzaneto, delle quali sono stati ritenuti responsabili tutti i 44 imputati nel processo, tra cui agenti della polizia di stato, della polizia penitenziaria e medici. La mancanza del reato di tortura nel codice penale italiano ha impedito di punire i responsabili in modo proporzionato alla gravità della condotta loro attribuita. I reati minori di cui questi sono stati giudicati responsabili sono sottoposti a prescrizione e nessuno tra coloro che ha violato i diritti umani a Bolzaneto sconterà alcun periodo di carcere.

Il 18 maggio 2010, la Corte d'appello di Genova ha riconosciuto le responsabilità di 27 tra agenti e dirigenti della polizia per i gravi abusi commessi nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, ai danni di decine di persone presso la scuola Diaz. Ne è emerso un quadro allarmante di gravi violazioni (tra cui lesioni gravi, arresti illegali, falso e calunnia), commesse nei confronti di decine di manifestanti inermi, aggrediti mentre si trovavano in luogo di riparo notturno al termine delle manifestazioni.

Nei nove anni trascorsi non c'è stata alcuna parola forte di condanna da parte delle istituzioni per il comportamento tenuto dalle forze di polizia, né un'analisi interna ai corpi di polizia relativa al fallimento nella gestione dell'ordine pubblico a Genova nel 2001.




Lucia Capparrucci
domenica 6 giugno 2010

L'ecomafia non va in crisi


INCHIESTA

da LaRepubblica.it
(04 giugno 2010) 

L'ecomafia non va in crisi
"G5 criminalità", Italia prima


Presentato il Rapporto Legambiente. Nel 2009 le organizzazioni criminali hanno incassato 20,5 miliardi di euro. Fra i "traffici" più vistosi: le cosche e i rifiuti in Campania, il racket sugli animali, l'abusivismo edilizio. Napolitano: "Prevenzione e azione di contrasto più incisiva"
di ANTONIO CIANCIULLO


ROMA - Nell'Italia indebolita dalla crisi c'è un'organizzazione in buona salute. E' l'ecomafia che non manca di liquidità perché nessuno si può rifiutare di pagare. Non ha bilanci in sofferenza perché nel 2009 è rimasta stabile incassando 20,5 miliardi di euro. Non ha il problema dei mercati che si chiudono perché guadagna spazio rafforzandosi soprattutto nel Lazio che ha conquistato il secondo posto dopo la Campania. Così nel "G5 della criminalità" l'Italia figura in testa. Perdiamo competitività come paese, ma abbiamo la mafia più potente. La ricerca e le industrie più innovative risentono delle incertezze del governo, ma siamo il secondo mercato illegale del pianeta, dopo gli Usa e prima del Giappone e della Cina. E' il ritratto che emerge da "Ecomafia 2010", il rapporto curato da Legambiente, con la prefazione di Roberto Saviano e l'introduzione del procuratore antimafia Pietro Grasso, per i tipi di Edizioni Ambiente.

Anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, auspica una "più incisiva" azione di contrasto e una "costante opera di prevenzione" a tutela dell'ambiente. "Il Rapporto - osserva il capo dello Stato - rappresenta anche quest'anno un importante contributo per la conoscenza dei comportamenti criminali che compromettono il nostro patrimonio naturale e per un'approfondita riflessione sugli interventi più idonei". Servono, dice Napolitano, "nuove metodologie di rilevazione e l'adeguamento del quadro normativo al rapido evolversi di un fenomeno criminale in forme sempre più sofisticate e aggressive". E poi, la prevenzione, "incentrata su iniziative volte a promuovere, soprattutto tra le nuove generazioni, la cultura del rispetto e della tutela dell'ambiente".

Campania, cosche e rifiuti. Mentre l'emergenza rifiuti in Campania veniva ufficialmente cancellata dal primo gennaio 2009, come se il problema fosse stato risolto, i numeri mostrano una straordinaria attività delle cosche proprio in questo campo: le infrazioni accertate nel ciclo dei rifiuti segnano un più 33 per cento (da 3.911 nel 2008 a 5.217 nel 2009). Un quadro ancora più preciso potrebbe essere tracciato se nel "Rapporto rifiuti 2010" dell'Ispra non mancasse un dato chiave: quello sui rifiuti speciali, categoria molto delicata in cui passa buona parte del traffico illegale.

Animali e racket. Tra le altre novità del 2009, anno del pressing per la deregulation sulla caccia, ci sono la crescita dei reati contro la fauna (+58% ) e la buona tenuta del racket degli animali che, stando alla stima della Lega antivivisezione (Lav), tra corse clandestine di cavalli, combattimenti tra cani, traffici di fauna viva esotica o protetta, macellazione clandestina si conferma un business da 3 miliardi di euro.

L'abusivismo edilizio. Alle cosche altri 2 miliardi arrivano dall'abusivismo edilizio e la mafia ha scoperto un nuovo modo per fare ottimi guadagni nel ramo del commercio: aprire direttamente negozi, supermarket e grandi centri. Così si riciclano i soldi accumulati illecitamente e si esercita il controllo sociale attraverso la gestione degli appalti, delle forniture e dei posti di lavoro.

Calcestruzzo, infrastrutture a rischio. Infine cresce l'allarme per il calcestruzzo depotenziato: a rischio strade, ponti, viadotti, ferrovie, gallerie, case, centri commerciali, scuole, ospedali e commissariati. Un business molto redditizio per i clan che si aggiudicano appalti nazionali e locali per costruire opere pubbliche e private. Nell'elenco delle opere taroccate con calcestruzzo di pessima qualità ci sono gli aeroporti di Palermo e Trapani, il porto turistico di Balestrate, il lungomare di Mazara del Vallo, l'ormai famoso Ospedale San Giovanni di Dio ad Agrigento e perfino per il Commissariato di Polizia di Catelvetrano (Tp); per il Palazzo di giustizia e la diga foranea di Gela, la piattaforma di emergenza dell'ospedale di Caltanissetta e lo svincolo di Castelbuono dell'autostrada Palermo-Messina.

L'offensiva contro le ecomafie. A fronte di questo assalto dell'ecomafia c'è comunque un rafforzamento della capacità di risposta. Aumentano gli arresti (+ 43%, da 221 nel 2008 agli attuali 316) e gli illeciti accertati (28.576 oggi, 25.776 lo scorso anno) pari a 78 reati al giorno, cioè più di 3 l'ora. Aumentano del 33,4% le persone denunciate (da 21.336 a 28.472) e dell'11% i sequestri effettuati (da 9.676 a 10.737).

Le richieste al governo. Ma - fa notare il vicepresidente di Legambiente Sebastiano Venneri - l'offensiva contro l'ecomafia dovrebbe essere sostenuta dal governo con una serie di misure concrete: introduzione dei delitti contro l'ambiente nel codice penale; uso delle intercettazioni telefoniche e ambientali nelle indagini; bonifica delle aree più inquinate e delle opere pubbliche realizzate con calcestruzzo povero.

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Visto e ripreso da La voce dell'emergenza - il Blog (-> link )


venerdì 4 giugno 2010

L'eco del silenzio su Radio Libriamoci Web: I diritti del morente (Seconda parte)




L'eco del silenzio 

su Radio Libriamoci Web:
I diritti del morente
(Seconda parte)



trasmissione del 25 maggio 2010


Chi sta morendo a diritto a:

1. A essere considerato come persona sino alla morte

Il morente è ancora capace di esercitare i diritti di cui è titolare, e tale capacità va rispettata. Per questo motivo il primo punto pone l’attenzione sul individuo definendolo “persona”, scelta fatta per renderne immediatamente evidente l’importanza morale, legittimarne il ruolo di centro di imputazione di diritti e di doveri, nonché affermarne l’attitudine ad essere soggetto, e non oggetto, delle decisioni rilevanti che riguardano la sua vita.
Non si tratta di sottovalutare, o addirittura di ignorare, la gravità delle condizioni fisiche e psicologiche in cui versa il malato prossimo alla morte, ma piuttosto di superare la diffusa convinzione che la vicinanza alla morte giustifichi la separazione dei morenti dal contesto del vivere sociale, e la sospensione, nei loro confronti, delle regole e dei principi ai quali, nell’attuale fase di sviluppo della società, si ritiene che la vita degli individui debba essere informata.
A trattare chi muore più come un oggetto che come un soggetto è giunta, a ben guardare, quella medicina moderna sempre più incline a scorgere nel morente la prova tangibile di un insopportabile fallimento terapeutico. Ricordare che il morente è una persona serve a denunciare l’inadeguatezza di una medicina tanto velleitaria nella sua indiscriminata promessa di guarigione e di salute, quanto incapace di farsi sufficientemente carico del problema della sofferenza e del processo del morire.

2. A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole

Solo un paziente adeguatamente informato è in grado di effettuare con consapevolezza le scelte inerenti la sua salute e la sua vita, quindi anche il malato terminale deve poter esprimere il proprio consenso, ovvero il proprio dissenso, alle proposte diagnostiche e terapeutiche del medico. Fondamentale è che che l’informazione a cui ha diritto il morente, non avvenga in modo catartico sul letto di morte e che non si compia in un unico atto. Deve iniziare molto prima e configurarsi come un processo graduale all’interno di un’articolata e complessa relazione comunicativa tra il malato ed un medico capace di scegliere i modi, i tempi in genere, le strategie utili a promuovere la consapevolezza e l’autonomia di soggetti diversi per attitudini, condizioni personali, capacità di reazione, situazione clinica ed altro ancora.
Quello all’informazione è un diritto, ma il malato può scegliere di non esercitarlo. Non tutte le persone sono interessate a conoscere le proprie condizioni di salute, e si ha quindi anche il diritto a non essere informati. Pertanto, sul diritto dei morenti a essere informati incide la loro volontà.

3. A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere

Il gioco della finzione messo in atto dai medici e dai parenti non protegge il paziente dalla sofferenza di sapere la verità (il malato anche se non ne parla, “sente” che la propria vita è al termine) mentre lo priva della possibilità di esprimere, all'interno di una relazione autentica, i suoi stati d'animo, le sue emozioni ed angosce; si crea così una comunicazione distorta, che può portare a rapporti improntati alla diffidenza, con conseguenze difficili da gestire. Non si deve essere brutali con il malato ma dare la comunicazione con franchezza e semplicità, dando risposte veritiere. La “Carta” ritiene che l’accettazione di una qualche consapevolezza del morente sulla gravità delle proprie condizioni, aiuti anche i famigliari a tenere sotto controllo, per quanto è possibile, l’angoscia per la perdita imminente del loro caro.

4. A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà

5. Chi sta morendo ha diritto al sollievo del dolore e della sofferenza

Nel caso dei malati prossimi alla morte non è più possibile porre in atto trattamenti volti a perseguire la guarigione e fare quindi una terapia attiva, ma a questi malati può e deve essere garantita la migliore qualità di vita compatibile con la gravità delle loro condizioni. Il 70-90% dei malati di cancro in fase avanzata ha dolore di intensità medio-alta e soffre di molti altri sintomi egualmente stressanti.
Questo complesso di sofferenze, nel comune modo di sentire, ha perso ogni connotazione positiva. La sopportazione del dolore come testimonianza di fermezza di carattere, o come dono sacrificale in espiazione dei propri o altrui peccati non è più un valore, se non per pochissimi, il cui diritto di accettare le proprie sofferenze deve, peraltro, essere sempre rispettato.
Il controllo del dolore e dei sintomi fisici è il primo passo per ridurre la sofferenza di chi muore. Un paziente ottenebrato dal dolore non è in grado di avere relazioni, di affrontare il proprio stato, di elaborare le proprie emozioni, di esprimere i propri sentimenti. Il dolore e non la malattia è disumanizzante.
Gli oppioidi (la morfina ed i farmaci analoghi), usati nel modo corretto, sono in grado, sia da soli, sia in associazione con altri preparati, di controllare l’80-90% dei dolori, provocando come effetti collaterali soltanto stitichezza e modesta sonnolenza.
Può essere comprensibile che il cittadino medio, in maniera acritica, identifichi la morfina con la tossicodipendenza, ma non è assolutamente vero. La morfina non è eroina, sono differenti in tutto dalla via di somministrazione agli effetti che procurano, volendo tralasciare gli scopi.
Considerate che l’utilità della morfina è talmente nota che il suo consumo pro capite è stato assunto come indicatore di qualità della terapia del dolore da cancro: più basso è il consumo, più malati sono lasciati col dolore. L'Italia purtoppo nel 1997 ha dichiarato un consumo di morfina pari ad un decimo di quello francese e il consumo medio pro capite di oppioidi è al terzultimo posto in Europa, ad un livello che è di un ordine di grandezza mille volte inferiore rispetto a quello dei Paesi nord-europei e inferiore anche a molti Paesi in via di sviluppo come Eritrea, Congo, Cambogia e Ghana.
La sofferenza, intesa come percezione cosciente, può anche assumere una valenza spirituale che prescinde dalla percezione del dolore fisico. In tal caso, la sofferenza può esistere anche in assenza di dolore o di altri sintomi fisici, e può dipendere dalla perdita del senso della vita, dalla dipendenza da altri, dal configurarsi di una condizione che il malato reputa inaccettabile.
L’insieme di tali sofferenze dà luogo al “dolore totale”, una condizione non degna dell’essere umano, intervenire quindi in queste situazioni costituisce per la nostra epoca un impegno di grande civiltà.
Ricordo che non si sta assolutamente parlando di eutanasia, ma di sedazione del sintomo “fisico” e assistenza a quello che è il dolore “mentale”.

6. Chi sta morendo ha diritto a cure ed assistenza continue nell'ambiente desiderato

Il morente deve poter contare su un’assistenza continuativa anche quando si rivela inutile qualsiasi trattamento medico.
In altri termini, come esiste per le persone libere il diritto di scegliere il modo e lo stile di vita che preferiscono, così deve essere garantita al morente la stessa possibilità di scelta sul dove morire.

7. Chi sta morendo ha diritto a non subire trattamenti che prolunghino il morire

Negli ultimi anni il perpetuare un trattamento curativo fino alle soglie della morte, pratica corrente per molto tempo, è stato oggetto di una sempre più ampia valutazione negativa da parte degli stessi medici. Il codice deontologico della categoria afferma, del resto, che il medico deve astenersi da trattamenti dai quali non possano derivare benefici per il paziente o un miglioramento della sua qualità di vita (accanimento terapeutico). È tuttavia risaputo che nella pratica medica quotidiana ancora oggi il curante si sente autorizzato a fare di tutto per prolungare il morire, forse anche per il timore di ricadere in responsabilità penali.
La cura è, dunque, da considerarsi adeguata non solo quando procura un momentaneo sostegno vitale,
ma quando ha riflessi positivi sulle condizioni generali del paziente, che non è un insieme di organi malati, ma una persona che soffre. Ciò non significa escludere l’eventualità che sia lo stesso malato a richiedere al medico di proseguire le cure volte a prolungare la sopravvivenza, nel qual caso la richiesta va soddisfatta, nei limiti della possibilità.
È auspicabile, peraltro, che l’équipe che ha in carico il malato si impegni a conoscere la volontà del paziente sulle cure attuate in quel momento, ma anche su quelle che possono rendersi necessarie in una fase più avanzata della malattia, soprattutto se si prevede come imminente la perdita dello stato di coscienza.

8. Chi sta morendo ha diritto ad esprimere le sue emozioni

Nella società attuale prevale un controllo esasperato della sfera emotiva, come se certi stati d’animo dovessero sempre e comunque essere tenuti nascosti. Questa autocensura, senz’altro dominante per tutto il corso della vita, sembra accentuarsi quando ci si trova di fronte alla morte e al morire. Ma il mondo emozionale è parte integrante dell’individuo, e bloccare le emozioni significa, per chi sta per morire, porre in atto un meccanismo di negazione e di dissimulazione (rifiutare di sentire ciò che si sente) tanto gravoso quanto ingiustificato alla fine della vita.
Non si può inoltre escludere che attraverso l’espressione delle emozioni abbia luogo un’elaborazione della situazione stessa.
Diversi studi mostrano, infatti, che, se è vero che i sintomi depressivi e l’ansia sono comuni nei morenti e ne influenzano la qualità di vita, è altrettanto vero che la comprensione delle difficoltà e dei conflitti emozionali dei morenti da parte di curanti e famigliari disposti ad instaurare rapporti non viziati da reticenze e da dissimulazioni, può alleggerire l’angoscia e diminuire la sofferenza di chi muore.

9. Chi sta morendo ha diritto all’aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede

L’affermazione di questo diritto può sembrare superflua. Eppure, riaffermare questo diritto serve a riproporre, cercando anche di dare una risposta, una domanda talmente elusa nella società attuale - come morire? - da essere stata quasi messa da parte.
I più approfonditi studi sulle fasi finali della vita hanno posto in luce come nel vissuto psicologico dei malati prossimi alla morte vi siano diverse fasi, dalla fase della negazione (il morente rifiuta la realtà), a quella della collera nei confronti di tutto e di tutti (perché proprio io?), al patteggiamento (il morente “contratta” con la morte o con Dio: riuscire a vivere fino al matrimonio del figlio, veder nascere il nipotino...), alla depressione, e infine all’accettazione. È in quest’ultima fase che sono frequenti le conversioni religiose, a dimostrazione del fatto che la consapevolezza della propria mortalità fa emergere un dolore spirituale difficile da definire, ma senz’altro legato al trovarsi di fronte alla propria finitezza, difficile da accettare anche per chi ha un credo religioso e ha il conforto di sperare nell’Aldilà. C’è, dunque, un bisogno di sostegno e di conforto che deve essere riconosciuto e rispettato.

10. Chi sta morendo ha diritto alla vicinanza dei suoi cari

Il diritto del morente alla vicinanza dei suoi cari nasce dal fatto che tale vicinanza ha una determinante influenza positiva sul suo modo di essere e divivere l’ultima fase della sua vita, gli affetti possono “riempire la vita”, dando quel conforto che ancora può rimanere, negargli questa relazione di vicinanza equivarrebbe quindi a procurargli un vero e proprio danno. Va ricordato che se tradizionalmente i “cari” si identificavano con i famigliari, nella società attuale altrettanto, e talora anche più importanti, sono diventate le relazioni degli affetti. Ora “caro” non indica necessariamente il parente, bensì la persona con cui si ha una consonanza di vita.

11. Chi sta morendo ha diritto a non morire nell’isolamento e in solitudine

La rimozione della morte, diffusa in società, quali quelle dei paesi industriali avanzati, nelle quali i miti della produttività e dell’efficienza si sono intrecciati con le aspettative alla guarigione sempre e comunque conseguibile, alimentate da una medicina tanto incline ad enfatizzare i propri successi, quanto a dissimulare i propri limiti, ha, come si è già osservato in precedenza, la sua più concreta e drammatica manifestazione nell’allontanamento dal contesto sociale, e quindi nella determinazione di una sorta di morte sociale, antecedente alla morte biologica, di quei soggetti che la medicina si dichiara impotente a guarire.
In una società caratterizzata dal prevalere del conformismo, della massificazione, dalla tendenza ad uniformare abiti mentali e stili di vita, la solitudine può assumere la valenza positiva di consapevole scelta esistenziale propria di chi, non riconoscendosi nei modelli di comportamento e nei valori prevalenti nella società, ha il coraggio di compiere scelte controcorrente in ogni fase della propria vita. Ma per i malati prossimi alla morte la solitudine non è sempre il risultato di una scelta riguardo al come morire, del tutto legittima e meritevole di rispetto, quand’anche non condivisa dai più. È , piuttosto, l’effetto, indesiderato e produttivo di grandi sofferenze, dovuto all’operare di complessi fattori culturali e strutturali.

12. Chi sta morendo ha diritto a morire in pace e con dignità

La malattia inguaribile è sempre più spesso trattata come se fosse “lo scandalo massimo”: deve essere isolata, nascosta, rimossa anche dalla coscienza; ma questo atteggiamento, diffuso nei curanti e in generale nel pubblico, porta ad attitudini e comportamenti “deviati”, rispetto alle reali esigenze e richieste della persona malata come: accanimento terapeutico, oltranzismo diagnostico, veicolazione di messaggi che creano false illusioni sulla positiva evoluzione della malattia.
Per questo il contesto, nel quale il malato prossimo alla morte, trascorre parte o tutto il tempo del proprio morire è oggi identificabile con strutture di ricovero, ospedali pubblici o privati, dove spesso sono del tutto disattesi i suoi bisogni. Riaffermare quindi il diritto a “morire in pace” ha il significato oggi di permettere al morente di trascorrere i suoi ultimi giorni nel luogo che preferisce, dove più abbia la possibilità di riconciliarsi con tutto ciò che sta lasciando, evitandogli qualsiasi intervento che non sia in armonia con le sue scelte. In questa prospettiva, per garantire al malato le più ampie possibilità di scelta, vanno promosse e sostenute attività curativo/assistenziali, che favoriscano interventi di supporto presso diverse realtà: dal domicilio, al ricovero ospedaliero o in letti di Servizi di cure palliative, dedicati ai malati morenti o in strutture “ad hoc” - come gli hospice.

Mi rendo conto che l'argomento è tanto silenzioso quanto ostico anche semplicemente da ascoltare, ma ho ritenuto fosse importante dare voce ai morenti perché sono problematiche umanitarie che riguardano tutti. Stavolta non si parla di Africa, ma di una disumanità che è presupposto sociale della nostra realtà, è bene quindi porsi degli interrogativi. Non credo che esistano delle risposte vere e proprie sul fine vita, ancor meno se questo dovesse essere il nostro, ma sono convinta che anche sempliceme porsi degli interrogativi in merito, possa aiutare a considere come parte del percorso di vita l'atto del morire.


Lucia Capparrucci


domenica 30 maggio 2010

L'eco del silenzio su Radio Libriamoci Web: I diritti del morente (Prima parte)



L'eco del silenzio 
su Radio Libriamoci Web:
I diritti del morente
(Prima parte)


trasmissione del 25 maggio 2010

Visualizzate la scena. Sta per nascere un bambino, siamo in ospedale e dentro la sala parto ci sono la madre e il padre del nascituro, un ginecologo, un’ostetrica, spesso un anestesista e al bisogno un neonatologo; poco lontano da lì, oltre la porta i nonni, a volte i futuri fratellini, magari un’amica e/o un fratello dei due genitori, tanta gente, molto affetto e il massimo dell’assistenza.
Cambio di scena. Siamo ancora in ospedale, una persona anziana o comunque malata da diverso tempo sta morendo, non ci sono infermieri, non ci sono medici, spesso non ci sono nemmeno i parenti.
Ovviamente ci sono delle eccezioni sia al primo che al secondo scenario, parlo quindi di nascite solitarie o senza la dovuta assistenza e di morti serene con intorno gente che accompagna il trapasso.
Perché questa differenza?
Premetto che non è una questione di preavviso, se per la nascita si hanno circa nove mesi per prepararsi all’evento, stessa cosa accade per la morte anzi forse i tempi sono anche più dilatati.
In un paese con gli standard sociali e assistenziali come quelli dell’Italia la morte improvvisa vale a dire quella definita come inattesa, non traumatica, non violenta, che si verifica in maniera istantanea o entro breve tempo dall'inizio dei sintomi; ha secondo le statistiche internazionali un’incidenza di 0,7 - 1 caso x 1000 abitanti per anno. Ad esempio, in Italia tale numero si stima essere di circa 40 mila - 57 mila, tradotto in termini percentuali ciò rappresenta, secondo i dati ISTAT, l'8% - 11% di tutte le morti che si verificano annualmente nel nostro paese (circa mezzo milione).
Se a queste decidiamo di sommare le morti per incidenti si rimane comunque ad un 10% delle totali, solo una persona su dieci non sa di morire eppure le altre nove arrivano all’appuntamento sole e spesso in un contesto (al di là dell’evento) desolato; si torna allora al nostro iniziale perché.
Le spiegazioni sono molteplici, ma fra queste hanno un ruolo di primo piano la paura ed il rifiuto che si sono radicati e radicalizzati nella nostra cultura sia della morte che della malattia, queste vengono sempre maggiormente contrapposte al concetto stesso di vita, ma questa ghettizzazione di quelli che sono solamente altri aspetti del vivere ha inasprito le difficoltà che hanno: il morente, la sua famiglia ed anche il terapeuta che li affianca.
L’uomo o la donna che stanno morendo sono, ricordiamocelo bene, persone e come tali godono di tutti i diritti, quella che viene definita morte sociale e che spesso precede anche di alcuni anni quella biologica, oltre a dover essere rimandata quanto più possibile non dove diventare viatico per quella giuridica.
Come qualunque altro malato, anche quello terminale ha diritto all'autodeterminazione, vale a dire che ha la libertà di accettare o rifiutare le terapie e più in generale gli interventi medici che gli vengono proposti, così come stabilito dall’art. 32 della Costituzione. Presupposto ovviamente essenziale a questa scelta è il principio del consenso informato, quindi che il malato sia correttamente informato sulla diagnosi, la futura evoluzione della sua patologia e, che valuti le possibili alternative diagnostiche e terapeutiche anche in termini di costi e benefici. Questo diritto della persona ad essere informata e scegliere in piena autonomia gli interventi che la riguardano è stato ribadito anche dal Consiglio d’Europa con la Convenzione sui diritti umani e la biomedicina dell’aprile ‘97. La libertà di scegliere le cure, infatti fa parte delle libertà fondamentali garantite a tutti dall’art. 13 della Costituzione, che per prima cosa afferma che “La libertà personale è inviolabile”.
Atteggiamenti di tipo paternalistico da parte dei parenti o del medico che tendono a decidere in vece del paziente senza averlo informato adeguatamente, non sono quindi solo eticamente scorretti poiché declassano il malato da soggetto ad oggetto delle decisioni che lo riguardano, ma sono anche una violazione di specifici diritti della persona.
Ne consegue che i diritti e la dignità di persona del morente vengono spesso violati proprio nel momento più difficile e angoscioso dell’esistenza. Chi è al termine della vita, infatti, da una parte, si trova a subire trattamenti invasivi e inutili volti a prolungare la sopravvivenza (il cosiddetto accanimento terapeutico), dall'altra, può anche trovarsi abbandonato e trascurato nelle sue esigenze affettive e psicologiche. Alla ricerca di un’alternativa fra questi atteggiamenti e comportamenti, entrambi dannosi, la Medicina Palliativa, dalla fine degli anni Sessanta, ha affrontato i problemi del malato prossimo alla morte in modo globale, tenendo conto della complessità delle sue esigenze, non solo fisiche (ad esempio il controllo del dolore), ma anche psicologiche, spirituali e di relazione con chi gli è vicino. Questo approccio è stato ritenuto così valido che il 9 marzo 2010 la Camera ha dato il via libera, in terza lettura, al disegno di legge sulle cure palliative e le terapie del dolore.  Un tema sul quale maggioranza e opposizione si sono trovate d’accordo, al punto che si è trattato di un voto quasi unanime: 476 voti sì e due astensioni.
Nel maggio 1999 il Comitato Etico presso la Fondazione Floriani, (la fondazione è un ente apolitico, aconfessionale, senza fini di lucro, che ha l'obiettivo di diffondere e applicare, nell'assistenza al paziente in fase terminale, le Cure Palliative) ha elaborato e in seguito diffuso la Carta dei Diritti dei Morenti
Un documento in dodici punti che vuole accrescere la consapevolezza sui bisogni del morente e delle risposte ad essi più adeguate, così che diventi patrimonio comune che se non è vero che tutti i malati sono curabili è però vero che di tutti ci si può prendere cura. 
Passo a leggervi i dodici punti dei quali poi vi darò un ulteriore breve spiegazione, attingendo al materiale esplicativo che accompagna la carta.


Chi sta morendo ha diritto:


1) A essere considerato come persona sino alla morte

2) A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole

3) A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere

4) A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà

5) Al sollievo del dolore e della sofferenza

6) A cure ed assistenza continue nell’ambiente desiderato

7) A non subire interventi che prolunghino il morire

8) A esprimere le sue emozioni

9) All'aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede

10) Alla vicinanza dei suoi cari

11) A non morire nell’isolamento e in solitudine

12) A morire in pace e con dignità


Lucia Capparrucci




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