giovedì 14 gennaio 2010

Sciopero bianco contro il razzismo

da Peace Reporter
12/01/2010
 



Un modo concreto per sostenere la mobilitazione del primo marzo 2010.
Il primo di marzo deve per forza essere una data importante. Perché, semplicemente, non si può continuare ad essere indifferenti. A tante cose, certamente, siete indifferenti. Ma la peggiore di tutte è il razzismo.
Volete gli immigrati per raccogliere gli agrumi e poi li fate vivere con i topi, volete gli immigrati di notte per fare i turni in fabbrica, ma non volete i loro bambini di giorno; volete gli immigrati perché si arrampichino per due lire sulle impalcature per rifare le facciate delle vostre case, o per costruirvene di più nuove e di più belle, e riservate loro delle luride stanze a cinquecento euro al mese a posto letto. Volete donne che puliscano il culo e che si prendano cura dei vostri vecchi e dei vostri bambini, ma non volete metterle in condizioni di curare loro stesse, e le lasciate morire perché han paura di andare in ospedale.


"Camminando in città come Milano per le vie del centro, e io lo faccio, per il numero di persone non italiane sembra di essere non in una città italiana o europea, ma in una città africana. Questo noi non lo accettiamo, dovevamo intervenire con azioni di respingimento". Lo ha detto il primo ministro di questa "repubblica" che il prossimo 19 gennaio sarà condannata dalla corte europea proprio per la politica dei cosiddetti respingimenti.

Signor Berlusconi, signor Maroni, signor Napolitano, signori e signore che sedete sulle poltrone del parlamento e dei ministeri, avete tradito non solo la Costituzione di questo Paese, non solo gli ideali della rivoluzione borghese di Francia, ma finanche le basi della società occidentale. E verrà il giorno in cui sarete ripudiati.

Per questo PeaceReporter ha scelto di sostenere con tutte le sue poche forze la mobilitazione del primo marzo. Diventandone megafono, per raccontare le storie che milioni di persone soffrono in questi tristi anni di regressione della nostra civiltà.

Ma per questo vogliamo rilanciare, proponendo a tutti i lavoratori italiani (indipendentemente dalle sigle sindacali a cui appartengono, sempre che vi appartengano) di aderire alla giornata di protesta degli immigrati. Non astenendosi dal lavoro, ma con lo strumento dello sciopero bianco. Devolvendo la giornata di lavoro, o anche solo due ore, a chi concretamente supplisce alle vergognose carenze dello Stato italiano.

Io devolverò la paga della mia giornata per sostenere il poliambulatorio di Palermo di Emergency, e in generale il progetto che vuole l'associazione impegnata in Italia e non solo all'estero. Ma ognuno scelga quello che ritiene. Il gesto però crediamo che vada fatto. Un gesto importante, ancor più significativo in un momento di crisi come questo, che può dare voce, forza e coraggio a chi cerca ostinatamente di costruire una società più giusta. Per noi che siamo nati qui, non solo per coloro che sono stati costretti a raggiungerci.
Su questa idea esiste un gruppo di Facebook.
Maso Notarianni
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L'immagine in alto è  Quinto Stato di Mario Ceroli, 1984
(Foto di Aurelio Amendola)


martedì 12 gennaio 2010

Learning from Europe - Imparando dall'Europa


"L’Europa è molto spesso presa a  esempio e monito, a dimostrazione che cercare di rendere meno crudele l’economia e prendersi cura dei cittadini quando sono colpiti dalla sventura puoi significare arrestare il progresso economico. Di fatto, l’esperienza europea ci insegna esattamente il contrario: la giustizia sociale e il progresso possono procedere di pari passo."
Se a dirlo è un premio Nobel per l'economia e dalle colonne del The New York Times speriamo che sia vero e che anche noi del vecchio continente e i nostri vari e variegati politici lo si tenga sempre ben presente.

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L'Europa non è poi così male

pubblicato il 12 gennatio 2010  |   The New York Times

Frankcoforte, simbolo del capitalismo all'europea (Wolfgang Staudt)
Frankcoforte, simbolo del capitalismo all'europea (Wolfgang Staudt)


Mentre gli oppositori della riforma sanitaria accusano Barack Obama di voler imporre la socialdemocrazia a Washington, il premio Nobel per l'economia Paul Krugman difende il modello europeo tanto odiato dai conservatori statunitensi.
Ora che la riforma dell’assistenza sanitaria si avvicina al traguardo, tra i conservatori è pianto e stridor di denti. Perfino i più moderati hanno messo in guardia che la “cura Obama” trasformerà l’America in una socialdemocrazia  come quelle europee. E tutti sanno che l’Europa ha perso  da tempo il suo dinamismo economico.
Strano a dirsi, però, ciò che tutti sanno non è affatto vero. L’Europa ha i suoi problemi economici, certo, e chi non ne ha, del resto? Ma ciò che si sente dire  incessantemente dell’Europa - della sua economia stagnante in cui alte tasse e generosi benefit sociali hanno compromesso gli stimoli e paralizzato la crescita e l’innovazione - ha ben poco in comune con la realtà, indiscutibilmente e sorprendentemente positiva. La lezione europea è esattamente il contrario di ciò che i conservatori credono: l’Europa è un successo economico, e quel successo dimostra che la socialdemocrazia funziona.
A dirla tutta, il successo economico europeo dovrebbe essere ovvio ed evidente, anche senza ricorrere alle statistiche. Mi rivolgo agli americani che hanno visitato Parigi: vi è parsa forse una città povera e arretrata? E che dire di Francoforte o Londra? Bisogna sempre ricordare che quando si deve scegliere se dar retta alle statistiche economiche ufficiali o ai propri ingannevoli occhi, sono questi ultimi a spuntarla.
Una crescita differente
In ogni caso, le statistiche non possono che confermare l'osservazione. È vero che l’economia statunitense è cresciuta più rapidamente di quella europea nella generazione passata. Dal 1980 – quando la nostra politica ha svoltato bruscamente verso destra, diversamente dall’Europa – il prodotto interno lordo reale americano è cresciuto, mediamente, del 3 per cento annuo. Nel frattempo l’Ue-15 – il blocco di 15 paesi che appartenevano all’Unione Europea prima del suo allargamento – è cresciuto soltanto del 2,2 per cento annuo. L’America ha vinto!

O forse no: questo dato infatti significa soltanto che noi abbiamo avuto una più rapida crescita della popolazione. Dal 1980 il prodotto interno lordo pro-capite reale – ciò che più conta davvero, in funzione degli standard di vita – è salito più o meno della stessa percentuale sia in America sia nell’Ue-15, del 1,95 per cento qui, dell’1,83 per cento in Europa. E che dire della tecnologia? Alla fine degli anni novanta si poteva sostenere che la rivoluzione nelle tecnologie informatiche avesse solo sfiorato l’Europa. E invece l’Europa ha recuperato, e su più fronti. La banda larga, in particolare, è diffusa tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, con la sola differenza che in Europa è molto più veloce e a buon mercato.
L’occupazione? In questo settore l’America ha performance indubbiamente migliori. I tassi di disoccupazione in Europa sono di solito molto più alti di quelli americani, e la percentuale della popolazione occupata è inferiore. Detto ciò, se avete in mente milioni di adulti in età da lavoro che se ne stanno con le mani in mano e vivono di sussidi, fareste bene a cambiare idea: nel 2008 nell’Ue-15 c’era un’occupazione dell’80 per cento degli adulti di età compresa tra 25 e 54 anni (l’83 per cento in Francia). La percentuale è più o meno la stessa negli Stati Uniti. Gli europei sono solo meno propensi a lavorare quando sono molto giovani o molto anziani. Ma siamo così sicuri che sia proprio un’ idea malvagia? Oltretutto, gli europei sono alquanto produttivi: lavorano un numero inferiore di ore, ma in Francia e in Germania il loro indice di produttività è vicino ai livelli statunitensi.
Avversione ideologica
Non che l’Europa sia un’utopia. Come gli Stati Uniti, anch'essa sta avendo problemi a uscire dall’attuale crisi finanziaria. Come quelle statunitensi, anche le grandi nazioni europee devono far fronte a gravi problemi fiscali che perdurano da tempo e come i singoli stati degli Stati Uniti anche alcuni paesi europei vacillano sull’orlo della crisi fiscale (la California è oggi la Grecia americana, in senso negativo naturalmente). Se però consideriamo le cose da una prospettiva a lungo tempo, l’economia europea funziona e cresce tutto sommato come la nostra.
Allora perché tanti sapientoni hanno un’immagine così diversa dell’Europa? Perché secondo il dogma economico prevalente in questo paese la socialdemocrazia di stampo europeo dovrebbe essere un disastro completo. E la gente tende a vedere soltanto ciò che vuole vedere. Dopo tutto, se i rapporti sul crollo economico europeo sono enormemente esagerati, i rapporti sulle sue alte tasse e i suoi generosi benefit non lo sono affatto. Le tasse nelle più importanti nazioni europee vanno dal 36 al 44 per cento del pil, rispetto al 28 degli Stati Uniti, ma l’assistenza sanitaria universale è appunto universale e la spesa sociale è decisamente superiore a quanto sia qui in America.
L’Europa è molto spesso presa a  esempio e monito, a dimostrazione che cercare di rendere meno crudele l’economia e prendersi cura dei cittadini quando sono colpiti dalla sventura puoi significare arrestare il progresso economico. Di fatto, l’esperienza europea ci insegna esattamente il contrario: la giustizia sociale e il progresso possono procedere di pari passo. (ab) 
Paul Krugman
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Inserisco di seguito l'articolo originale.
(link)
Op-Ed Columnist
Learning From Europe



Published: January 10, 2010

As health care reform nears the finish line, there is much wailing and rending of garments among conservatives. And I’m not just talking about the tea partiers. Even calmer conservatives have been issuing dire warnings that Obamacare will turn America into a European-style social democracy. And everyone knows that Europe has lost all its economic dynamism.
Strange to say, however, what everyone knows isn’t true. Europe has its economic troubles; who doesn’t? But the story you hear all the time — of a stagnant economy in which high taxes and generous social benefits have undermined incentives, stalling growth and innovation — bears little resemblance to the surprisingly positive facts. The real lesson from Europe is actually the opposite of what conservatives claim: Europe is an economic success, and that success shows that social democracy works.
Actually, Europe’s economic success should be obvious even without statistics. For those Americans who have visited Paris: did it look poor and backward? What about Frankfurt or London? You should always bear in mind that when the question is which to believe — official economic statistics or your own lying eyes — the eyes have it.
In any case, the statistics confirm what the eyes see.
It’s true that the U.S. economy has grown faster than that of Europe for the past generation. Since 1980 — when our politics took a sharp turn to the right, while Europe’s didn’t — America’s real G.D.P. has grown, on average, 3 percent per year. Meanwhile, the E.U. 15 — the bloc of 15 countries that were members of the European Union before it was enlarged to include a number of former Communist nations — has grown only 2.2 percent a year. America rules!
Or maybe not. All this really says is that we’ve had faster population growth. Since 1980, per capita real G.D.P. — which is what matters for living standards — has risen at about the same rate in America and in the E.U. 15: 1.95 percent a year here; 1.83 percent there.
What about technology? In the late 1990s you could argue that the revolution in information technology was passing Europe by. But Europe has since caught up in many ways. Broadband, in particular, is just about as widespread in Europe as it is in the United States, and it’s much faster and cheaper.
And what about jobs? Here America arguably does better: European unemployment rates are usually substantially higher than the rate here, and the employed fraction of the population lower. But if your vision is of millions of prime-working-age adults sitting idle, living on the dole, think again. In 2008, 80 percent of adults aged 25 to 54 in the E.U. 15 were employed (and 83 percent in France). That’s about the same as in the United States. Europeans are less likely than we are to work when young or old, but is that entirely a bad thing?
And Europeans are quite productive, too: they work fewer hours, but output per hour in France and Germany is close to U.S. levels.
The point isn’t that Europe is utopia. Like the United States, it’s having trouble grappling with the current financial crisis. Like the United States, Europe’s big nations face serious long-run fiscal issues — and like some individual U.S. states, some European countries are teetering on the edge of fiscal crisis. (Sacramento is now the Athens of America — in a bad way.) But taking the longer view, the European economy works; it grows; it’s as dynamic, all in all, as our own.
So why do we get such a different picture from many pundits? Because according to the prevailing economic dogma in this country — and I’m talking here about many Democrats as well as essentially all Republicans — European-style social democracy should be an utter disaster. And people tend to see what they want to see.
After all, while reports of Europe’s economic demise are greatly exaggerated, reports of its high taxes and generous benefits aren’t. Taxes in major European nations range from 36 to 44 percent of G.D.P., compared with 28 in the United States. Universal health care is, well, universal. Social expenditure is vastly higher than it is here.
So if there were anything to the economic assumptions that dominate U.S. public discussion — above all, the belief that even modestly higher taxes on the rich and benefits for the less well off would drastically undermine incentives to work, invest and innovate — Europe would be the stagnant, decaying economy of legend. But it isn’t.
Europe is often held up as a cautionary tale, a demonstration that if you try to make the economy less brutal, to take better care of your fellow citizens when they’re down on their luck, you end up killing economic progress. But what European experience actually demonstrates is the opposite: social justice and progress can go hand in hand.


lunedì 11 gennaio 2010

In burqua o in bikini?




Al liceo scrissi per un compito in classe un articolo che doveva avere come argomento il ruolo della donna nella società, insomma il solito tema che prima o poi tutti nella nostra carriera scolastica ci siamo trovati a dover affrontare. Non ricordo bene il testo o le argomentazioni che espressi nel medesimo, ma ho ancora davanti agli occhi il titolo: “In burqua o in bikini?”. La professoressa, femminista convinta ex-sessantottina ormai pantera dal tacco a stiletto, ne rimase decisamente perplessa, sosteneva che il paragone, quei due indumenti tanto differenti quanto esterofili nei nomi messi vicini dessero fastidio più allo sguardo che alle coscienze.
Ricordo ancora la mia soddisfazione nel lasciarlo tale e la rinnovata voglia di spiegarlo nel testo, perché alla fine lo scrissi allora e lo ripeto oggi (e non posso nemmeno considerare originale la mia idea) una donna  è sovente quello che le impongono più o meno velatamente di indossare.
Se per essere ministre è necessario rinunciare alla minigonna e convertirsi al tailleur o al twin set con filo di perle, per essere castissimo angelo del focolare serve un'altra maschera e per essere piacenti si finisce per essere nude.
Alla  fine che si scelga per i nostri presunti comodi la carta con cui rivestirci o sia il padre, il marito, il fidanzato, il fratello o il datore di lavoro a farlo per noi, quella che dovrebbe essere una semplice patina, quello che dovrebbe essere involucro va ad essere l'essenza con cui ci presentiamo al mondo, diventiamo carne.
Una donna si valuta al chilo, forse al grammo, è un corpo che deve avere quella quantità precisa di adipe necessaria, sia per accettarsi e dicono stare bene con se stessa, che per essere, “stranamente”, l'incarnazione dei desideri di un uomo. Donna è quello che resta da quei centimetri a geometria variabile che un uomo ha fra le gambe , senza aver compiuto nessun tipo di sforzo o  dimostrato particolari abilità.



Con tutto il rispetto per il sistema metrico decimale questo è decisamente riduttivo e lo è anche continuare a sostenere che la colpa sia delle donne e della loro rivoluzione sessuale portata avanti a metà, cioè attraverso un'acquisizione di quei modelli maschili che prima criticavano perché aberranti. Se viene maltrattata, picchiata o violentata alla fin fine è perché ha provocato, se è diventata un ibrido senza genere con fattezze di bambola e spigoli mentali da uomo è perché ha fallito il suo processo di emancipazione, insomma indipendentemente dal punto da cui si osserva questo oggetto che dell'individuo ha più ben poco, l'unico elemento costante ed evidente è il suo essere  colpevole.
In questa identificazione, accettazione della colpa “finalmente” l'uomo e la donna si incontrano, trovano un terreno comune in cui proclamare le vittorie del primo e le sconfitte della seconda.

Intanto mentre ancora all'orecchio mi giungono voci di plauso e desiderio per le quote rosa, e  mi accingo a spiegare per l'ennesima volta che quello che pretendo è il merito tanto per l'uomo che per la donna (dato che a sedere in parlamento sono i cittadini, non i panda), oltralpe parlano, scrivono e fortunatamente “filosofeggiano” su come “[...] un uomo, in quanto essere razionale, lo è solo se incarnato.”

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da Peace Reporter
9 gennaio 2010


La Marzano è stata inserita dal Nouvel Observateur fra i cinquanta intellettuali maggiormente influenti in Francia
Scritto per noi da
Linda Chiaramonte


Ha un grande dono Michela Marzano, giovane filosofa italiana professore associato all'Università di Parigi, inserita da Le Nouvel Observateur tra i cinquanta intellettuali più influenti in Francia, quello di rendere semplice la filosofia anche ai non addetti ai lavori e di trasmetterla con grande passione. Accolta da una platea molto numerosa accorsa qualche giorno fa alla sua lezione magistrale tenuta a Bologna, nell'ambito di Gender Bender (festival dedicato alle rappresentazioni del corpo e ai lavori che si occupano delle identità di genere e di orientamento sessuale) che quest'anno si occupa del corpo femminile e intitolato Colpo di grazia. Gender Bender infrange il mito della donna in vetrina. Chi meglio di Michela Marzano, curatrice del Dictionnaire du corps composto da trecento voci, già uscito in Francia e atteso in Italia nel 2010, poteva affrontare il tema dell'identità femminile contemporanea e le sue rappresentazioni sui media e nella società. Argomento molto dibattuto negli ultimi tempi, tanto da far mobilitare alcune pensatrici, fra cui la stessa Marzano che, insieme a Nadia Urbinati e Barbara Spinelli, dalle colonne del quotidiano La Repubblica ha lanciato un appello alle donne in risposta alle offese del premier a Rosy Bindi. La Marzano ha catturato l'attenzione del pubblico su questioni legate ai modelli femminili, spesso schiacciati da stereotipi che le vorrebbero schiave dell'immagine e dell'apparenza. Combattute fra la coscienza del proprio corpo e la negazione dei limiti che impongono allo stesso di non accettare i segni imposti dall'età e dalla malattia in nome di una sorta di onnipotenza che spesso le trasforma in oggetti e merce di scambio. In apertura del suo intervento la Marzano ha commentato il titolo infrangere il mito delle donna in vetrina "solo così" dice "si esce dalla prigione in cui ci si trova, dove il corpo è ridotto a merce di scambio o prigione del silenzio. Il fine del mio discorso è dimostrare l'importanza del pensiero critico, dell'analisi, della presa di parola. Fra gli scopi della filosofia del corpo c'è quello che la riflessione diventi incarnata superando la divisione anima corpo". "La tendenza" continua la Marzano "è pensare che la filosofia debba occuparsi solo di spirito, ma l'uomo, in quanto essere razionale, lo è solo se incarnato. È necessario uscire dal mito secondo cui uomini e donne sono esseri razionali disincarnati". La giovane filosofa porta avanti, come lei lo definisce, "un pensiero che balbetta, che non ha certezze, né verità assolute, ma verità incarnate appunto". Pone l'accento su "categorie che non si devono opporre, ma conciliare, vale per le dicotomie anima/corpo, uomo/donna, pubblico/privato". La Marzano indica una via da seguire "rinaturalizzare il corpo per giungere ad una vulnerabilità che si confronti con i limiti". La pensatrice si chiede quale posto occupi l'immagine nella nostra società consumistica, "il corpo" dice "è in bilico tra essere/apparire, specchio/maschera, essere/avere. Il corpo specchio mostra parte del proprio essere, ma può essere anche specchio infedele che nasconde ciò che siamo profondamente". Parla di "donne in difficoltà soprattutto in Italia dove la società è ancora arcaica e machista e si chiede se "è libertà trasformare il proprio corpo in risorsa-merce". Abbiamo incontrato Michela Marzano e le abbiamo rivolto alcune domande.

Dove sono finite le battaglie delle femministe?
Eh... (sospira e fa una pausa, ndr). Non lo so. È questo il problema. È come se in questi ultimi 15 anni ci fosse stato un cedimento da parte delle donne, come se si fossero progressivamente addormentate senza rendersi conto che le lotte devono continuare. Appena si abbassa la guardia il pericolo è dietro l'angolo. C'è sempre il rischio di una regressione, di perdere delle conquiste importanti. In Italia, rispetto alla Francia, la situazione sembra particolarmente preoccupante, non mi spiego come mai non ci sia stata una trasmissione di valori, è come se qualcosa si fosse rotto a livello generazionale.

Di chi sono figlie queste donne?
Di chi "siamo" figlie? Di donne che si sono impegnate e poi hanno pensato che la situazione fosse stata definitivamente risolta mentre non era così. Ho 40 anni e le mie coetanee sono cresciute con l'idea che ci fosse una parità e che niente fosse definitivamente conquistato, ma si dovesse continuare ad impegnarsi, con la speranza che questo desse dei frutti. Se osservo le giovani donne di oggi, le ragazze di 20 anni, sono spaventata. Ho la sensazione che non si pongano più una serie di questioni. È come se tutto dovesse restare com'è, e che l'aspirazione più grande fosse quella di andare in tv e diventare una velina. Questo per me rimane un mistero.

Paradossalmente crede che fossero migliori i tempi delle nostre madri?
La situazione era molto difficile negli anni '60, non so se le donne stessero meglio allora rispetto ad oggi, hanno fatto delle lotte straordinarie che hanno dato dei risultati. Ciò che è triste oggi è la sensazione che queste lotte non continuino e che la famosa uguaglianza reale a cui si aspirava non sia ancora stata raggiunta. La situazione delle donne di oggi è di frustrazione. C'erano tante speranze e molte di queste non si sono realizzate.

Cosa servirebbe ora, dopo il successo dell'appello, un movimento, scendere in piazza?
Secondo me bisogna tornare ai fondamentali, è una questione di educazione. Noi tutte ci dobbiamo mobilitare in quanto insegnanti. È una questione culturale di trasmissione di valori, conquiste, lotte. Negli ultimi anni il vero problema in Italia è stato un crollo culturale, educativo e di trasmissione. Oggi si raccolgono i miseri frutti di una società che ha creduto non fosse più importante mettere l'accento su valori come la formazione e la cultura, su tutto quello che è considerato inutile, come la letteratura, la filosofia. Si insegue un risultato immediato, contano le formazioni tecniche, si deve avere tutto a breve termine e ciò che implica una riflessione o un approfondimento a lungo termine, non interessa.

Uno slogan femminista degli anni '70 è stato "io sono mia". Non crede forse che oggi se ne sia travisato il senso, facendo un uso del corpo come oggetto?
È come se in Italia ci fosse una spaccatura tra due modi di vedere il ruolo della donna e i diritti, da un lato la società patriarcale, machista, tradizionale, dall'altro una posizione che definirei libertaria. Mi spiego meglio, da un lato la società machista e vecchio stile, come se ancora una volta fossero gli uomini gli unici in grado di decidere su una serie di questioni. Abbiamo visto l'estate scorsa cos'è successo intorno alla pillola RU486. Sono stati soprattutto gli uomini a prendere la parola e a spiegare alle donne quello che dovevano o non dovevano fare. Le donne sono state relativamente poco ascoltate e hanno preso poco la parola. Questo mostra come lo spazio dato alla donna per potersi affermare e spiegare su ciò che la riguarda direttamente, come la questione dell'aborto, sia minimo. Dall'altro lato ci sono posizioni che chiamo libertarie che tendono a teorizzare un'esistenza di una libertà assoluta che non esiste. La libertà va sempre contestualizzata. Ci sono una serie di condizioni socio-economiche e psicologiche che influenzano le scelte particolari. Come fare a riflettere sulla questione della libertà senza metterla in rapporto ad uguaglianza e solidarietà? Per poter uscire da questa impasse bisognerebbe riflettere sulla libertà, il corpo è mio, certo, io ho il mio corpo, ma io sono anche il mio corpo, non devo credere che sia una semplice proprietà, altrimenti si giungerebbe all'estremo di posizioni libertarie che giustificano il fatto che una persona priva di mezzi di sostentamento possa vendere gli organi. Lo sforzo per costruire una società giusta è arrivare a pensare insieme libertà, uguaglianza, solidarietà.

È d'accordo con la tendenza di alcune intellettuali e pensatrici di dare alle donne parte della responsabilità di una società machista, o crede sia un'altra colpa che ci addossiamo?
Credo sia un'altra colpa che ci addossiamo. Basta con i mea culpa, non si possono accusare le giovani di 20 anni di non aver preso posizione o di non prenderne quando si sa che fin da bambine le uniche cose che hanno visto e letto proponevano un modello stereotipato dal quale è difficile prendere distanza se non si hanno gli strumenti critici. Invece di colpevolizzarsi ancora una volta, cerchiamo di andare oltre, invece di accusarsi reciprocamente proviamo a costruire qualcosa insieme per il futuro e dare alle nuove generazioni la possibilità di staccarsi da queste norme, queste immagini, da una cultura maschilista invece che considerare che sono sempre le donne le responsabili.

Come s'inserisce il suo intervento nell'ambito del Festival?
Vorrei spiegare l'importanza oggi, per donne e uomini, di un pensiero incarnato che considera la fragilità della condizione umana, un pensiero che passa attraverso il corpo. Un messaggio che dovrebbe permettere a tutti di poter riflettere su se stessi in maniera non astratta.

Nell'appello che ha lanciato si parla di "ubbidienza e avvenenza" che "diventano come un burqa gettato sul corpo femminile". Un burqa metaforico mentre si discute molto di burqa reale. Ci spiega meglio?
In Francia il velo è sempre più presente. Ci si chiede perché molte giovani donne, che spesso vengono da una cultura non islamista, non solo si convertono all'Islam, ma scelgono la forma più radicale. Come mai donne che dovrebbero mobilitarsi per la loro libertà preferiscono segregarsi, nascondersi dallo sguardo della società piuttosto che scendere in piazza per manifestare? Cosa sta succedendo nelle nostre società? Perchè le donne tendono a scegliere soluzioni integraliste che le spingono sempre di più all'interno della sfera privata come se la sfera pubblica fosse ancora ed unicamente per gli uomini? Il burqa rappresenta una forma di regressione alla sfera privata e una questione di immagine. Si è lottato per anni per potersi mostrare, perchè si sceglie di nascondersi? Meglio mostrarsi nonostante tutto, anche se comporta sottomettersi a critiche e accuse, diventare un bersaglio. Meglio assumere il proprio ruolo piuttosto che nascondersi e ritirarsi in una sfera privata in cui non si può dire molto.

Ci sono donne coscienti di usare il proprio corpo per raggiungere degli obiettivi. Quanto sono libere di farlo o succubi invece di un contesto che le spinge a credere che sia l'unica soluzione?
Machiavelli direbbe "il fine giustifica i mezzi". Nel momento in cui si vuole arrivare si utilizzano i mezzi a disposizione e in questa società la sensazione è che l'unico modo per arrivare sia usare il proprio corpo, si capisce perché molte persone lo utilizzino. È come se fosse normale accettare di mettersi in una situazione di schiavitù, riducendo il proprio corpo ad oggetto di scambio. Lo si fa volontariamente perché si spera di ottenere vantaggi, ma credo lo si faccia soprattutto per una forma di abitudine, mancano altri modelli. Se l'unico modello è questo, per quale motivo ribellarsi ad una regola? Questo apre la questione della necessità di decostruire alcune norme che hanno progressivamente strumentalizzato la libertà, con il risultato che l'unico modo di essere libere sembri debba passare dall'uso del proprio corpo come una proprietà.

Vede una via d'uscita?
Sì, difficile, però credo nelle donne. Se si crea la possibilità di decostruire alcuni modelli e capire ciò che è successo, è possibile costruire un'altra società.

Qual è per lei la voce più interessante del suo Dictionnaire du corps?
L'articolo che m'interessa di più è desiderio, perché credo che il desiderio, come diceva Spinoza, sia l'essenza dell'uomo ed è attraverso il corpo che possiamo manifestarlo sapendo che non è una semplice pulsione. Non è un bisogno, è una forza che parte da ognuno di noi e ci spinge ad andare verso gli altri sapendo che essi mantengono la loro alterità. È in questo incontro legato al desiderio reciproco che si crea qualcosa.

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NOTE:
Lo spezzone di Scherzi a parte che ho pubblicato si trova anche nel documentario Il corpo delle donne di Lorella Zanardo, visionabile per intero QUI

La foto è presa dalla campagna promossa dall'Assessorato alle Pari Opportunità della Città di Torino contro lo sfruttamento del corpo femminile nelle pubblicità e contro le immagini offensive nei confronti delle donne.

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