giovedì 20 maggio 2010

L'eco del silenzio su Radio Libriamoci Web: Le crisi dimenticate (Seconda parte)




 
L'eco del silenzio
su Radio Libriamoci Web:
Le crisi dimenticate - Seconda parte

trasmissione del 18 maggio 2010



Ho scelto di leggervi la scheda sulla Repubblica Democratica del Congo la nona crisi identificata dal rapporto, perché è l'unica in undici anni a non essere mai stata fuori dalla lista e che quest'anno ha avuto solo 7 notizie dedicate dai TG, nonostante il perdurare della situazione di crisi ed è proprio questa cronica routine della tragedia del paese e l'assenza di accadimenti rapidi e straordinari, magari riguardanti occidentali e che fanno notizia, ad aver relegato il paese e le sofferenze della sua popolazione all'invisibilità.

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Repubblica Democratica del Congo
La guerra infinita nelle regioni orientali


Per tutto il 2009, gli abitanti della parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (rdc) hanno subito la violenza incessante di gruppi armati appartenenti a diverse fazioni. Centinaia di persone sono state uccise, migliaia di donne, bambini e talora uomini sono stati stuprati, e centinaia di migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le loro case.
Nel Nord Kivu dagli scontri armati tra fazioni si è passati alla guerriglia: ogni gruppo terrorizza la popolazione e dà fuoco alle case di un villaggio per vendicare il presunto appoggio fornito dagli abitanti alla fazione rivale.
Nel 2008 i combattimenti coinvolgevano soprattutto l’esercito regolare del Congo (Forces Armeés de la République Démocratique du Cong, fardc) e i gruppi armati del Congrès national pour la défense du peuple (cndp). Quest’anno, però, la situazione è
cambiata, da quando l’esercito congolese e quello ruandese hanno dato il via a un’offensiva nel Nord e nel Sud Kivu contro il gruppo armato delle Forces Démocratiques de Libération du Rwanda (fdlr).
L’esercito congolese ha goduto del supporto logistico della monuc, la missione di pace delle Nazioni Unite nella Repubblica Democratica del Congo.
A ottobre, le equipe di MSF stavano procedendo alla vaccinazione contro il morbillo di migliaia di bambini in sette località nella regione di Masisi, territorio controllato dalle fdlr – e l’operazione era gestita con il sostegno del Ministero della Salute –, quando proprio l’esercito del Congo ha aperto il fuoco, disperdendo civili e personale medico in una precipitosa fuga alla ricerca di riparo. L’attacco è stato deciso nonostante tutte le parti in gioco avessero garantito che l’area sarebbe stata sicura per l’intera durata delle attività sanitarie. Invece, migliaia di persone sono state costrette a scappare
verso destinazioni tuttora ignote e MSF ha dovuto evacuare tutte le sue equipe a Goma, capoluogo della regione. MSF ha immediatamente denunciato l’attacco militare. «è come se fossimo stati usati per fare da esca» ha dichiarato Luis Encinas, responsabile dei programmi di MSF in Africa centrale.
«L’attacco ha sfruttato in modo indegno e a fini militari l’occasione offerta dall’operazione umanitaria in corso». La campagna di vaccinazione di MSF è comunque proseguita in altre aree, raggiungendo 165 mila bambini.
Nonostante i crescenti segnali di instabilità in tutto il Congo orientale, MSF ha continuato a fornire assistenza medica a centinaia di migliaia di persone per quella che è stata una delle sue più vaste operazioni del 2009, che ha incluso la distribuzione di beni di primo soccorso, la gestione di cliniche mobili, la realizzazione di campagne di vaccinazione, di programmi di cura per il colera, l’accoglienza delle persone vittime di abusi sessuali. MSF è l’unica organizzazione umanitaria internazionale a effettuare
interventi chirurgici nel Nord Kivu, con una media di 14 operazioni al giorno nell’ospedale di Rutshuru.
Nel Congo orientale, da novembre 2008 a ottobre 2009 MSF ha visitato 528.850 persone, curato 10.160 bambini malnutriti e 4900 malati di colera e ha fornito cure mediche a 5330 persone vittime 10 di violenza sessuale.
Al contempo, le popolazioni delle province settentrionali di Haut-Uélé e Bas-Uélé sono rimaste intrappolate nella drammatica spirale di violenza generata dagli attacchi sferrati dal gruppo armato ugandese dell'lra e dalla conseguente controffensiva degli eserciti di Uganda e Congo.
I civili si trovano inoltre a dover far fronte a sempre crescenti episodi di vero e proprio banditismo.
Lo scorso anno, centinaia di migliaia di persone hanno dovuto abbandonare le proprie case. Il perdurare della violenza continua a spingerne migliaia verso le città in cerca di rifugio e sicurezza. A Doruma la popolazione è triplicata. Gangala e Banda ospitano ciascuna più di 20 mila profughi privi di qualsivoglia assistenza. Queste città si presentano come territori chiusi e protetti, mentre villaggi e campagne sono stati completamente abbandonati.
Tra i pochi soggetti a offrire assistenza medica di base, chirurgica, nutrizionale e psicologica, MSF ha chiesto alle altre organizzazioni umanitarie di aumentare la loro presenza nelle aree rurali più colpite da questa violenza estrema. La recrudescenza degli scontri ha costretto la stessa MSF a sospendere il programma di cura per la malattia del sonno.
La regione dell’Ituri, che negli ultimi anni sembrava essere al margine del conflitto, ha visto riaccendersi la violenza e la tensione tra le Forces de Résistance Patriotique d’Ituri (frpi) e l’esercito congolese, scontri che hanno provocato lo sfollamento di 50mila persone. MSF è l’unica organizzazione non governativa nella zona. In altre regioni, il sistema sanitario nazionale è tuttora gravemente insufficiente a soddisfare i bisogni della popolazione, spesso priva di qualunque protezione contro le malattie.
Nell’ultimo anno le équipe di MSF hanno continuato a garantire cure mediche gratuite e a contrastare epidemie come l’ebola, il colera e il morbillo. Nel 2009 MSF ha vaccinato contro il morbillo più di 500 mila bambini in tutto il paese.

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Altre schede delle crisi e testimonianze inerenti a quelle aree verranno postate nei prossimi giorni nel blog. Alla prossima settimana.
Da Lucia Capparrucci un saluto e l'augurio di frenetiche letture.












mercoledì 19 maggio 2010

Io non ci sto


IO NON CI STO


Gli stereotipi de “La pupa e il secchione”  non mi piacciono e lo voglio dire agli autori.
Una mobilitazione in Rete per dire NO al programma tv e al degrado televisivo imperante: mail bombing alla redazione fino al 25 maggio 2010.


IO NON CI STO
Io non ci sto
alla dittatura televisiva dell’avvenenza,
che mi fa esistere solo se bella o appetibile,
barattando il mio pensiero in nome di una magra
visibilità.
Io non ci sto
ad essere solo corpo.
Da guardare,
da toccare,
da giudicare,
da mercificare.
Io non ci sto
poiché conosco
cosa genera l’offerta della mia carne
sugli sguardi inconsapevoli.
Io non ci sto
e pretendo rispetto
e che si dia spazio a tutte le mie
diversità.
La mia rivoluzione comincia con il rifiuto
dell’immaginario imposto
per mutare nel respiro di una nuova dignità.
(G.V.)


Parte dal blog Un altro genere di comunicazione, sbarca su Facebook e trova il sostegno di blogger e associazioni impegnate a contrastare gli stereotipi di genere.
Ecco la mail bombing: chiunque si sente sconcertato, colpito o offeso dal modo in cui la dignità femminile e maschile vengono svilite dai modelli proposti dal programma “La pupa e il Secchione” può inviare la stessa mail alla redazione di Italia 1.
L’iniziativa è stata prorogata fino al 25 maggio 2010 per dare a tutti la possibilità di partecipare e perché è importante far sentire la nostra voce.
Oggi, grazie alla forza della Rete e del passaparola, possiamo essere ascoltati.
Lo dimostra l’intervento della capo progetto del programma sul blogUn altro genere di comunicazione”, seppure a nostro avviso non soddisfacente, lo dimostra l’invito – declinato – a partecipare a “Domenica 5”.
I modelli proposti dal programma “La pupa e il secchione” sembrano:
  • incitare uomini e donne a umiliarsi reciprocamente: l’aspetto fisico e l’intelligenza sembrano essere due opposti che non possono incontrarsi e in guerra per prevalere;
  • proporre modelli di relazione basati sulla prevaricazione e superficialità;
  • autodefinirsi reality, ovvero basati sulla realtà: la realtà è ben diversa e quella della televisione si sostituisce, così, nell’immaginario dello spettatore, a quella – diversissima – delle persone.
    Io non ci sto.
    Proponiamo PACIFICAMENTE e con gli strumenti del dialogo e dell’approfondimento modelli alternativi di maschile e femminile.
    Se anche tu, come noi, non ci stai invia la tua mail a Italia 1 (qui trovi il testo da copiare e firmare e l’indirizzo a cui inviarla) e con un commento sottoscrivi questo comunicato.
    Siamo SPETTATORI anche quando la televisione resta SPENTA. Non restiamo in silenzio, cambiamo i palinsesti.
    Perché se la televisione è lo specchio dell’Italia, vorremmo poter usare di nuovo il telecomando.
    Se sei un’associazione o un blog e vuoi essere tra sostenitori di questa iniziativa, comparendo fra i firmatari, scrivi a info.iononcisto@gmail.com.
    Se sei un cittadino, firmati con un commento al post.
    Preleva il codice per incollare il banner (rosso) sul tuo sito e diffondere l’iniziativa

    io non ci sto: per una tv libera dagli stereotipi



    Preleva il codice per incollare il banner (artistico) sul tuo sito e diffondere l’iniziativa

    io non ci sto: per una tv libera dagli stereotipi
    Contatti:

    info.iononcisto@gmail.com


    Promotrici:


        * Maria Grazia Verderame – Un altro genere di comunicazione
        * Francesca Sanzo – Donne Pensanti
        * Giorgia Vezzoli – Vita da streghe
        * Lorenza Garbolino – Una nuova Era

    Associazioni e blog firmatari:


        * Lorella Zanardo – Il corpo delle donne
        * Giovanna Cosenza – Dis.amb.ig.uando
        * Loredana Lipperini – Lipperatura
        * Maria Giusi Ricotti – http://www.ilcalderonemagico.it, http://www.nuovelune.it
        * Femminile Plurale – www.femminileplurale.wordpress.com
        * Anna Speranza – http://www.annasperanza.it
        * Associazione Voce donna – http://www.sguardididonna.it/vocedonna/index.htm
        * Laura Albano – www.unaltradonna.wordpress.com
        * Francesca Palmas – La coniglia
        * Stefania Prestopino – http://www.tamai.splinder.com/
        * Arnaldo Dovigo – www.parliamoneassieme.it
        * Lucia Capparrucci – Eco del silenzio




    martedì 18 maggio 2010

    L'eco del silenzio su Radio Libriamoci Web: Le crisi dimenticate (Prima parte)






    L'eco del silenzio
    su Radio Libriamoci Web:
    Le crisi dimenticate - Prima parte

    trasmissione del 18 maggio 2010


    La notizia di questa settimana è la campagna di Medici Senza Frontiere per offrire visibilità a tutte quelle che sono le crisi umanitarie dimenticate.
    Il 21 aprile Medici senza frontiere ha pubblicato il rapporto annuale sulle crisi più sottovalutate dai mezzi di informazione.
    La prima lista di questo genere fu fatta dall'Ong nel 1998, da allora sono passati 11 anni e 6 da quando MSF Italia in collaborazione con l’osservatorio di Pavia ha cominciato a valutare la copertura delle crisi nei telegiornali italiani e a farlo andando a indagare i contenuti degli stessi.
    Come già detto il monitoraggio è stato fatto per la prima volta nel 2004 e da allora è stato ripetuto ogni anno usando sempre lo stesso approccio metodologico.
    L'analisi della copertura dei notiziari sugli eventi e contesti di crisi in maniera sistematica e diacronica ha permesso due operazioni:
    In primo luogo di verificare e confrontare quanto spazio nei diversi anni ha occupato nell’agenda dei telegiornali l’informazione sulle crisi internazionali;
    In secondo livello l’analisi ripetuta nel tempo ha consentito di evidenziare tendenze ricorrenti dell’informazione tele-giornalistica italiana.
    I risultati di queste analisi permettono inoltre di formulare ipotesi sul funzionamento dei meccanismi di selezione della notizia e sui criteri di “notiziabilità” che quotidianamente traducono i molteplici eventi della realtà nei circa venti servizi di un telegiornale.
    Il rapporto di quest’anno ha evidenziato un dato stabile rispetto agli anni precedenti: le notizie sulle crisi umanitarie nel 2009 sono state il 6% del totale (5.216 su 82.788), con la stessa percentuale del 2008 (6%), ma ancora in linea con il calo di attenzione prestato alle aree di crisi in questi anni (il 10% nel 2006 e l’8% nel 2007).
    Ritengo necessario specificare che, mentre prima del 2008 la classifica annuale segnalava le crisi umanitarie dimenticate dai media, a partire dall’anno scorso la lista contiene una selezione delle crisi più gravi, e non più necessariamente ignorate, dato che, se tra queste ve ne sono alcune al contempo drammatiche e scarsamente rappresentate, è altrettanto vero che ce ne sono altre che di visibilità ne hanno molta, ma indirizzata solo su determinati aspetti.
    Questo spiega, ad esempio, perché nella Top Ten MSF compaia un paese come l’Afghanistan, che è uno degli scenari di crisi internazionali più visibile sui nostri schermi (anche per il coinvolgimento della missione militare italiana nel paese), e che è stati la crisi di cui maggiormente si è parlato nel 2007, fra le prime del 2008 e in assoluto la più passata dai TG nel 2009.
    In sintesi le dieci cenerentole de 2009 sono: le malattie tropicali dimenticate; la guerra nella Repubblica Democratica del Congo (RDC); il conflitto nello Sri Lanka e in Yemen; gli scarsi finanziamenti per la lotta all’AIDS; le condizioni drammatiche per le popolazioni del Sudan; i fondi inadeguati per la malnutrizione; i civili intrappolati nella morsa della violenza in Pakistan, come in Somalia e Afghanistan, stati nei quali l’accesso alle cure per la popolazione è estremamente difficoltoso.
    Tra le emergenze individuate quest‘anno, troviamo quindi una serie di paesi nei quali la popolazione civile è stata vittima inerme dei conflitti in atto, e dell'escalation di violenza all'interno degli stessi, luoghi in cui gli operatori umanitari hanno avuto crescenti difficoltà o sono stati addirittura impossibilitati a portare i soccorsi.
    Altre riguardano invece malattie e crisi sanitarie che continuano a essere ignorate e/o sottovalutate. Fra queste le cosiddette “malattie tropicali dimenticate” (leishmaniosi viscerale/kala-azar, malattia del sonno, Chagas e ulcera di Buruli) che si trovano in un totale cono d’ombra informativo.
    Le notizie ad esse dedicate sono state pari a zero, mentre di influenza suina, in soli 9 mesi, si è parlato in ben 1.337 notizie. Eppure più di 400 milioni di persone al mondo sono a rischio a causa delle malattie tropicali. La ricerca e sviluppo di nuovi medicinali e presidi diagnostici sono privi di fondi sufficienti e ciò ha gravi conseguenze sui pazienti.

    Medici Senza Frontiere quest'anno oltre a pubblicare il rapporto, per la prima volta in forma di libro con il titolo Le crisi umanitarie dimenticate dai media nel 2009” (Marsilio Editori), propone inoltre una campagna di sensibilizzazione con, e questa è un'ulteriore novità, l'obiettivo di dare vita, ad alcune mobilitazioni per coinvolgere l’opinione pubblica.
    La campagna è stata realizzata in collaborazione con l’Istituto Europeo di Design di Milano ed ha un nuovo sito creato appositamente, www.crisidimenticate.it, dove potrete trovare materiali per  dare anche voi, in prima persona, il vostro supporto.
    La campagna prevede due sezioni.
    La prima, “Adotta una crisi dimenticata”, è diretta ai media, alle Università e alle Scuole di giornalismo e gode del patrocinio della Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI); ad ha come obiettivo quello di dare spazio a momenti di confronto e approfondimenti sulle crisi umanitarie.
    La seconda, “Accendi un riflettore sulle crisi dimenticate”, è rivolta all’opinione pubblica e quindi anche a tutti voi singoli, mira ad attirare l’attenzione nei modi più diversi, da quello virtuale attraverso il sito crisidimenticate.it e Facebook, ma anche mediante iniziative concrete come i FlashMob che mano a mano verranno proposti o proporrete.
    In questa sezione c'è un elenco di link condivisibili su facebook, dieci per le altrettante crisi orfane, con i quali basta un semplice click per effettuare l'adozione e condividerli, per ora le adesioni non sono altissime si va dai 255 genitori per la malnutrizione infantile ai 48 per lo Sri Lanka,
    (es. per adottare il Pakistan su FB).
    Facciamo quindi la differenza e inseriamo fra i tanti link che solcano le nostre bacheche anche questi; se non saranno riflettori saranno quantomeno faretti umanitari.


    Lucia Capparrucci


     
    lunedì 17 maggio 2010

    Avvelenati - Oltre 50 relitti sono stati affondati tra Ionio e Tirreno calabro a partire dagli anni ‘60

     
    Avvelenati
    (qui)

    da PeaceReporter
    14/05/2010

    “Questa storia dev’essere raccontata, perché sta uccidendo la nostra gente”

    Neanche i Cani.
    "Nemmeno i cani trattano cosi la cuccia nella quale dormono", dice Antonio Nicaso, 17 libri di ‘ndrangheta alle spalle, una delle maggiori autorità mondiali in materia, consulente Unico Fbi sulla criminalità organizzata in Calabria. Sa bene di cosa parla quando analizza lo scempio che le Ndrine hanno fatto della loro regione: oltre 50 relitti sono stati affondati tra Jonio e Tirreno calabro a partire dagli anni ‘60, e chissà quante di queste carrette del mare contenevano scorie tossiche o peggio, materiale nucleare radioattivo. Le liste degli assicuratori navali londinesi ‘Lloyd's'' che pubblicano nel loro libro i cronisti calabresi Manuela Iatì e Giuseppe Baldessarro (‘Avvelenati' Città del Sole Edizioni, 16 euro) è di sicuro attendibile. "E non vuol dire - spiega Baldessarro - che tutte siano state affondate perché cariche di scorie avvelenate, ma di sicuro esiste un fenomeno sul quale i politici italiani
    dovrebbero indagare. Esistono decine di potenziali Navi dei veleni nei nostri mari,e non ci possiamo accontentare di una singola ispezione del Ministero dell'Ambiente in novembre, per stabilire che la nostra gente è fuori pericolo". Baldessarro si riferisce ai rilievi disposti dalla ministro Prestigiacomo su di un relitto che nel novembre scorso aveva suscitato allarme al largo di Cetraro, provincia di Cosenza, medio Tirreno. Il relitto individuato dalle ispezioni ministeriali non corrispondeva alle descrizioni del mercantile ‘Cunski' che si credeva trasportasse materiali velenosi, e fosse stato affondato lì dalle ecoMafie. "Le rilevazioni degli ispettori non ci dicono cosa ci sia dentro quella nave al largo delle coste calabresi, ma non ci chiariscono se vi siano altri relitti in zona. E noi sappiamo che ve ne sono a decine. I cittadini italiani avranno diritto di sapere se la loro salute è in pericolo, viste le alte incidenze di tumori in zona?" sostengono gli autori. Vicende torbide, con la partecipazione della Ndrangheta, si agitano intorno alle ‘Navi a Perdere' calabresi; soprattutto per quei 4 pentiti delel Ndrine (in una terra dove i pentiti di Mafia si contano sulle dita..) che hanno rilasciato dichiarazioni spontanee sull'argomento; "largamente inattendibili e smentiti dai fatti" secondo Baldessarro.. Come se sulla vicenda convenisse a qualcuno confondere le acque e rimestare nel torbido...

    Ma che ce ne fotte a noi del mare! "Cumpari, ma se seminiamo tutta ssa merda in mare lo roviniamo!" "Ma che me ne fottE del mare! Coi soldi che ci danno pi st'operazione, il mare ce lo andiamo a trovare ai Tropici!" Questo è pressappoco il succo della conversazione che Natale Iamonte, boss di Melito Porto Salvo, ha sul telefonino intercettato con un affiliato del suo clan; commentano l'affondamento della ‘Rigel' della società maltese May Fair Shipping, sottonoleggiata a un broker scandinavo, che a sua volta aveva affittato la nave a un terzo broker e così via. Nel settembre 1997 caricano di candelotti il mercantile e lo affondano al largo di Capo Spartivento; uno degli angoli più suggestivi di Calabria, non lontano da dove le tartarughe Caretta Caretta si adagiano a nidificare in luglio, una tra le poche spiagge del Mediterraneo a poter assistere a questo rituale di vita, contaminata dalla morte. Morte dai carichi radioattivi, che venivano procurati dall'ingegnere-faccendiere Giorgio Comerio, padanissimo e immischiato anche nella vicenda di traffico di rifiuti nucleari verso le coste desolate somale, conclusosi con l'assassinio della giornalista Rai Ilaria Alpi e del tecnico Hrovatin. Solo uno, dei tanti casi che troverete in questo accurato racconto del primo martirio da scorie di un popolo intero, descritto in ogni suo risvolto: rifiuti tossici, scorie nucleari, materiali radioattivi, "che continuano a sparire in Italia - conclude Baldessarro - per andare dove non si sa. Forse i politici dovrebbero cercare di capirlo e spiegarlo "

    Gli autori Manuela Iatì e Giuseppe Baldessarro sono delle mosche bianche nel panorama dell'informazione italiana del Duemila: hanno un'abitudine un po' demodé. Si sono fatti strada nel lavoro contando solo sul loro impegno e preparazione e senza santi in Paradiso. Ora ‘coprono' quella disgraziata regione per il maggiore network televisivo mondiale - lei- e per il maggiore quotidiano italiano - lui. Baldessarro sabato viene premiato come ‘Cronista dell'anno' per ‘'aver descritto nelle sue cronache la nuova mafia, più ricca e potente del mondo". Il riconoscimento intitolato a ‘Pippo Fava' gli verrà consegnato a Roseto degli Abruzzi. Chi legge questo libro non avrà risposte. Non leggerà tirate retoriche. Verrà posto di fronte a dei dubbi, a delle domande e sarà costretto a interrogarsi sul nostro Paese. Altra cosa fuori moda di questi tempi: vi chiederete, se deciderete di leggerlo, che Governo è quello che lascia che nella Valle del fiume Oliva in Calabria depositi di scorie nucleari, accertati da diversi rilevamenti e da carotaggi del terreno sulle sponde, senza che siano rimossi in un territorio che potrebbe essere un eden naturale, boschivo e senza industrie, dove ci sono cluster tumorali con incidenze maggiori che nella Seveso e nella Brianza del disastro della Diossina, negli anni '70. E questo Governo da sei mesi, quando furono scoperti i livelli degli isotopi radioattivi, anormali, non ha fatto nulla. Non un intervento, non una task force per rimuovere immediatamente i veleni che stanno facendo morire come mosche i calabresi. In questi tempi di Lega, ci sono terroni ancora più terroni degli altri terroni. Cosa importa se vivono tra la spazzatura nucleare?


    domenica 16 maggio 2010

    Citizen Journalism: falsità al gusto di luppolo


    Giorni fa ho pubblicato un post "Nigeria: petizione contro senatore che ha sposato una tredicenne" che avevo letto già tradotto nella sezione Global Voices del sito de LaStampa. "Questo è un progetto globale senza fini di lucro centrato sui citizen media, ideato presso il Berkman Center for Internet and Society della Harvard University (Boston, USA), gruppo accademico di ricerca sul rapporto tra Internet e società. Dall'autunno 2008 Global Voices opera in maniera indipendente, registrato come ente non-profit in Olanda." Leggendo e spulciando fra gli articoli, mi sono imbattuta in quello che vi propongo qui di seguito, l'ho trovato interessante perché evidenzia le caratteristiche e i limiti del citizen journalism e lo fa in modo al contempo poetico e "analitico".


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    Citizen Journalism: falsità al gusto di luppolo (qui)

    di Riccardo Valsecchi

    28
    gennaio 2010

    L’Ankerklause è una baracca sulle rive del canale della Spree che attraversa Kreuzberg. Ambiente rustico, coltre di fumo, odore di luppolo. Il mio angolo preferito è il tavolo all’entrata, sulla sinistra, dove la tenda a fili adornata da finte perle blu fa pendant con il divano e con il buio della notte berlinese. Una volta, in quell’angolo, ho intervistato una poetessa boliviana. Indossava un maglioncino blu e sulle labbra portava un tratto quasi invisibile di rossetto color mare che sembrava riflettersi sullo sfondo. Noir.

    Ieri sera stavo seduto a lavorare proprio a quel tavolo quando è arrivata una mail insolita: “Dear Mr. Valsecchi…sono uno studente presso l’Università di Dublino e desidererei intervistarla in merito alla sua attività per la testata giornalistica online Digital Journal.” Di fronte a me sedeva Thomas: sulla sessantina, capelli lunghi, trasandati e un poco unti, barba sfatta, cicca di sigaretta sorretta tra le labbra nascoste in mezzo a un paio di baffoni ingialliti dalla nicotina.

    Thomas è uno scrittore, almeno così dice, perché io non ho mai letto nulla di suo. Sul tavolo però, accanto al boccale di pilsener che la cameriera provvede sempre a mantenere stracolmo, tiene una penna e un foglio bianco. Thomas odia i computer, il rumore della ventola della CPU lo infastidisce e non capisce affatto il senso e l’ossessione per Internet. Nonostante questo, benché io abbia l’abitudine di lavorare contemporaneamente con un laptop da 15” pollici e un netbook su cui tengo tutti gli appunti di viaggio, finisce sempre, tra un improperio e l’altro, per sedermi vicino, dicendo che costituisco una fonte d’ispirazione per il suo lavoro: sostiene che nei miei occhi, intenti a osservare lo schermo widescreen di fronte, vede l’ineluttabile tristezza e rassegnazione della tecno-generazione di cui a suo parere faccio parte. Ogni tanto, quando è troppo ubriaco per accorgersene, alzo lo sguardo per sbirciare che cosa stia scrivendo, ma il foglio che ha di fronte, a parte qualche macchia di birra e qualche sputacchio, rimane sempre completamente bianco.

    Quando ho ricevuto la mail di cui sopra, all’inizio mi sono sentito lusingato, quasi commosso: “Ehi Thomas, guck mal, guarda qui,” con una punta d’orgoglio. Lui nulla, un sorriso ebete da alcolizzato. Demoralizzato, ho chiuso il laptop, e ho fissato quello straccio d’uomo con risentimento. Poi però, all’improvviso, un inspiegabile senso di disperazione, mortificazione, paura mi ha colto. Un incubo: “Che cosa mi sta succedendo Thomas?” Per la prima volta da quando lo conosco, ho visto il mio amico prendere in mano la penna e scalfire con la punta il foglio di fronte.

    Digital Journal è un aggregatore di news che si basa sul concetto di “giornalismo partecipativo”, “citizen journalism” in inglese.

    Che cosa è il giornalismo partecipativo?

    È quel modello d’informazione che prevede la partecipazione attiva dei lettori sia come fornitori di materiale, sia come commentatori: gli utenti s’iscrivono al sito web e sono abilitati alla pubblicazione di news, post, storie, foto e video su eventi vari, nonché a commentare gli articoli altrui. In pratica i lettori stessi sono i creatori dei contenuti che arricchiscono il sito. Digital Journal è solo una delle tante testate online che hanno adottato questa politica, anche se dalla maggior parte si distingue, in quanto elargisce una cifra, sebbene irrisoria, ai propri utenti/collaboratori in base al numero di visitatori e ai voti accumulati nei singoli articoli. I più interessanti esperimenti in Italia di citizen journalism sono “Fai La Notizia” di Radio Radicale e “Youreporter”: nessuno di essi prevede un compenso.

    Il giornalismo partecipativo si basa su due grandi falsità: che tutti quanti sono in grado di fare informazione e che più la possibilità di fare informazione è allargata, più è garantito lo spirito democratico.  Equivale a dire che tutti quanti siamo in grado di fare i medici e che più è data la possibilità di esercitare la professione medica, anche a chi non ha attestato professionale, più è garantita la possibilità di sopravvivenza: se fosse così, io stesso, che distinguo a fatica un gomito da un ginocchio, e che curo entrambi con un cocktail micidiale di 600 mg di ibuprofene, 300 mg di ketoprofene e 300 mg di naprossene, probabilmente avrei una marea di ulcerati sulla coscienza.

    Il giornalista è una professione e come tale deve essere trattata: sapere scrivere è un elemento essenziale, ma non basta. Esistono regole, metodologie, prassi che l’operatore impara a rispettare durante un lungo periodo formativo – in Italia, tanto per cambiare, quasi sempre anch’esso non retribuito – e che richiedono non solo l’adeguamento a una prassi stilistica e contenutistica consolidata, ma anche delle competenze intrinseche che ne veicolano l’operato. Prima di tutto tecniche: il professionista deve conoscere il mezzo con cui opera, che esso sia la penna, una macchina da scrivere, un laptop, una camera fotografica o una videocamera. In secondo luogo strutturali: una notizia, per quanto banale, ha sempre e comunque mille sfaccettature che, presentate in maniera inconsapevole, possono generare un surplus di significati non desiderato. Quanti non operatori del settore conoscono la differenza tra l’uso attivo e passivo della frase? Ebbene, il professionista sa che le sentenze “X ha ucciso Y” e “Y è stato ucciso da X” comportano un investimento semantico differente rispetto al ruolo dei due soggetti, a seconda dell’importanza che si voglia dare alla figura attanziale dell’“omicida” o della “vittima”. Poi contenutistiche: ogni dato deve essere provato e comprovato da più fonti; ogni fonte deve essere reperibile in qualsiasi istante; ogni intervista deve essere registrata e archiviata in modo tale da poter essere sempre disponibile in caso di contestazione; il giornalista, benché sia ovvio che l’obiettività non esiste, non è un opinionista e deve essere in grado di svolgere un contenuto secondo una logica formale adeguata. Questi sono solo alcuni dei mille assiomi che la deontologia professionale impone e che il “citizen reporter” non ha la preparazione adeguata per svolgere. Non è una constatazione o un giudizio di valore: io personalmente non posso fare l’idraulico, come testimonierebbe anche la mia vicina che si è vista filtrare l’acqua dal soffitto quando ho avuto l’idea malsana di cambiare la disposizione dei tubi del lavabo. Non conosco la tecnica, la procedura, gli strumenti, nemmeno la normativa, come diavolo posso pretendere d’improvvisarmi idraulico solo perché mi è concessa la possibilità di comprare dei tubi in saldo all’OBI vicino a casa?



    Inoltre, ciò che l’utente partecipativo crede essere lo strumento democratico per eccellenza, è invece un’incredibile macchina di consenso per la testata che lo utilizza. Il concetto è semplice: se il successo e la potenza di un sito web sono riposti nella sua reperibilità nei motori di ricerca, la quale a sua volta dipende dalla quantità di contenuti presentati, oltre che alla loro diffusione e condivisione, allora quale modo migliore di quello che induce gli utenti a generare una pluralità infinita di contenuti? Non importa la qualità, non importa le competenze, non importano le fonti: essenziale è indurre i fruitori a creare, creare e creare, nella consapevolezza che ogni nuovo testo significa accrescere il proprio bacino d’utenza e, da non dimenticare, il proprio tornaconto economico. Immaginate che cosa significhino, in termini di denaro, 150-200 post gratuiti, i quali producono nell’arco di una giornata un valore che oscilla tra le 50 alle 200 visite ciascuno, per un sito il cui guadagno è assicurato dalla vendita di spazi pubblicitari secondo il modello “payperclick”, ovvero l’inserzionista paga una tariffa unitaria in proporzione ai click sul proprio banner?


    Esempio di quanto il citizen journalism possa essere uno strumento ambiguo di consenso è rappresentato dalla sua variante, che prevede una partecipazione limitata del lettore ad alcuni argomenti scelti dalla redazione. In Italia il campione di questa tipologia è Repubblica.it, il quotidiano online diretto da Vittorio Zucconi. È interessante notare come la testata, la quale si fa portavoce di un’iniziativa per la libertà di stampa, richieda la collaborazione del lettore solo là dove essa è più funzionale alla propria linea politica, come nel caso della campagna “Siamo tutti fannulloni” – 156 gallerie per 25 foto l’una, 3.900 utenti coinvolti -, “No-B Day”, ecc. Facendo ciò, Repubblica.it usufruisce di contenuti e focalizza l’attenzione dell’utente solo su alcuni argomenti dei quali il lettore/citizen journalist, essendo reso partecipe, diventa promotore e diffusore: aldilà delle visioni politiche personali, è questo un modello democratico d’informazione?

    “Perché hai deciso di scrivere per Digital Journal?” chiede il giovane studente.

    Perché voglio sopravvivere. Non esiste alternativa in un mercato che sta puntando più sulla quantità che sulla qualità; ma di questo, non ne sono affatto colpevoli i giornalisti, piuttosto è una politica decisa dagli editori e che rispecchia la volontà dei lettori. Ma quanto consapevole è questa volontà dei meccanismi in cui è inserita?

    È ormai notte inoltrata, lascio Thomas che dorme col capo rivolto sul tavolo e un rigolo di bava, non ancora vomito, che gli esce dalla bocca. Non lo sveglio, tanto non si ricorderebbe nemmeno come mi chiamo. Mi avvio verso la fermata di Kottbusser Tor, un po’ disgustato dal sapore di luppolo e dall’odore di fumo sui vestiti. Fa un freddo boia e la neve, che ho sempre amato e che qui ho imparato a odiare, cade ancora incessantemente.



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