venerdì 4 giugno 2010
L'eco del silenzio su Radio Libriamoci Web: I diritti del morente (Seconda parte)
23:25 | Pubblicato da
Lucia |
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L'eco del silenzio
su Radio Libriamoci Web:
I diritti del morente
(Seconda parte)
(Seconda parte)
trasmissione del 25 maggio 2010
Chi sta morendo a diritto a:
1. A essere considerato come persona sino alla morte
Il morente è ancora capace di esercitare i diritti di cui è titolare, e tale capacità va rispettata. Per questo motivo il primo punto pone l’attenzione sul individuo definendolo “persona”, scelta fatta per renderne immediatamente evidente l’importanza morale, legittimarne il ruolo di centro di imputazione di diritti e di doveri, nonché affermarne l’attitudine ad essere soggetto, e non oggetto, delle decisioni rilevanti che riguardano la sua vita.
Non si tratta di sottovalutare, o addirittura di ignorare, la gravità delle condizioni fisiche e psicologiche in cui versa il malato prossimo alla morte, ma piuttosto di superare la diffusa convinzione che la vicinanza alla morte giustifichi la separazione dei morenti dal contesto del vivere sociale, e la sospensione, nei loro confronti, delle regole e dei principi ai quali, nell’attuale fase di sviluppo della società, si ritiene che la vita degli individui debba essere informata.
A trattare chi muore più come un oggetto che come un soggetto è giunta, a ben guardare, quella medicina moderna sempre più incline a scorgere nel morente la prova tangibile di un insopportabile fallimento terapeutico. Ricordare che il morente è una persona serve a denunciare l’inadeguatezza di una medicina tanto velleitaria nella sua indiscriminata promessa di guarigione e di salute, quanto incapace di farsi sufficientemente carico del problema della sofferenza e del processo del morire.
2. A essere informato sulle sue condizioni, se lo vuole
Solo un paziente adeguatamente informato è in grado di effettuare con consapevolezza le scelte inerenti la sua salute e la sua vita, quindi anche il malato terminale deve poter esprimere il proprio consenso, ovvero il proprio dissenso, alle proposte diagnostiche e terapeutiche del medico. Fondamentale è che che l’informazione a cui ha diritto il morente, non avvenga in modo catartico sul letto di morte e che non si compia in un unico atto. Deve iniziare molto prima e configurarsi come un processo graduale all’interno di un’articolata e complessa relazione comunicativa tra il malato ed un medico capace di scegliere i modi, i tempi in genere, le strategie utili a promuovere la consapevolezza e l’autonomia di soggetti diversi per attitudini, condizioni personali, capacità di reazione, situazione clinica ed altro ancora.
Quello all’informazione è un diritto, ma il malato può scegliere di non esercitarlo. Non tutte le persone sono interessate a conoscere le proprie condizioni di salute, e si ha quindi anche il diritto a non essere informati. Pertanto, sul diritto dei morenti a essere informati incide la loro volontà.
3. A non essere ingannato e a ricevere risposte veritiere
Il gioco della finzione messo in atto dai medici e dai parenti non protegge il paziente dalla sofferenza di sapere la verità (il malato anche se non ne parla, “sente” che la propria vita è al termine) mentre lo priva della possibilità di esprimere, all'interno di una relazione autentica, i suoi stati d'animo, le sue emozioni ed angosce; si crea così una comunicazione distorta, che può portare a rapporti improntati alla diffidenza, con conseguenze difficili da gestire. Non si deve essere brutali con il malato ma dare la comunicazione con franchezza e semplicità, dando risposte veritiere. La “Carta” ritiene che l’accettazione di una qualche consapevolezza del morente sulla gravità delle proprie condizioni, aiuti anche i famigliari a tenere sotto controllo, per quanto è possibile, l’angoscia per la perdita imminente del loro caro.
4. A partecipare alle decisioni che lo riguardano e al rispetto della sua volontà
5. Chi sta morendo ha diritto al sollievo del dolore e della sofferenza
Nel caso dei malati prossimi alla morte non è più possibile porre in atto trattamenti volti a perseguire la guarigione e fare quindi una terapia attiva, ma a questi malati può e deve essere garantita la migliore qualità di vita compatibile con la gravità delle loro condizioni. Il 70-90% dei malati di cancro in fase avanzata ha dolore di intensità medio-alta e soffre di molti altri sintomi egualmente stressanti.
Questo complesso di sofferenze, nel comune modo di sentire, ha perso ogni connotazione positiva. La sopportazione del dolore come testimonianza di fermezza di carattere, o come dono sacrificale in espiazione dei propri o altrui peccati non è più un valore, se non per pochissimi, il cui diritto di accettare le proprie sofferenze deve, peraltro, essere sempre rispettato.
Il controllo del dolore e dei sintomi fisici è il primo passo per ridurre la sofferenza di chi muore. Un paziente ottenebrato dal dolore non è in grado di avere relazioni, di affrontare il proprio stato, di elaborare le proprie emozioni, di esprimere i propri sentimenti. Il dolore e non la malattia è disumanizzante.
Gli oppioidi (la morfina ed i farmaci analoghi), usati nel modo corretto, sono in grado, sia da soli, sia in associazione con altri preparati, di controllare l’80-90% dei dolori, provocando come effetti collaterali soltanto stitichezza e modesta sonnolenza.
Può essere comprensibile che il cittadino medio, in maniera acritica, identifichi la morfina con la tossicodipendenza, ma non è assolutamente vero. La morfina non è eroina, sono differenti in tutto dalla via di somministrazione agli effetti che procurano, volendo tralasciare gli scopi.
Considerate che l’utilità della morfina è talmente nota che il suo consumo pro capite è stato assunto come indicatore di qualità della terapia del dolore da cancro: più basso è il consumo, più malati sono lasciati col dolore. L'Italia purtoppo nel 1997 ha dichiarato un consumo di morfina pari ad un decimo di quello francese e il consumo medio pro capite di oppioidi è al terzultimo posto in Europa, ad un livello che è di un ordine di grandezza mille volte inferiore rispetto a quello dei Paesi nord-europei e inferiore anche a molti Paesi in via di sviluppo come Eritrea, Congo, Cambogia e Ghana.
La sofferenza, intesa come percezione cosciente, può anche assumere una valenza spirituale che prescinde dalla percezione del dolore fisico. In tal caso, la sofferenza può esistere anche in assenza di dolore o di altri sintomi fisici, e può dipendere dalla perdita del senso della vita, dalla dipendenza da altri, dal configurarsi di una condizione che il malato reputa inaccettabile.
L’insieme di tali sofferenze dà luogo al “dolore totale”, una condizione non degna dell’essere umano, intervenire quindi in queste situazioni costituisce per la nostra epoca un impegno di grande civiltà.
Ricordo che non si sta assolutamente parlando di eutanasia, ma di sedazione del sintomo “fisico” e assistenza a quello che è il dolore “mentale”.
Ricordo che non si sta assolutamente parlando di eutanasia, ma di sedazione del sintomo “fisico” e assistenza a quello che è il dolore “mentale”.
6. Chi sta morendo ha diritto a cure ed assistenza continue nell'ambiente desiderato
Il morente deve poter contare su un’assistenza continuativa anche quando si rivela inutile qualsiasi trattamento medico.
In altri termini, come esiste per le persone libere il diritto di scegliere il modo e lo stile di vita che preferiscono, così deve essere garantita al morente la stessa possibilità di scelta sul dove morire.
7. Chi sta morendo ha diritto a non subire trattamenti che prolunghino il morire
Negli ultimi anni il perpetuare un trattamento curativo fino alle soglie della morte, pratica corrente per molto tempo, è stato oggetto di una sempre più ampia valutazione negativa da parte degli stessi medici. Il codice deontologico della categoria afferma, del resto, che il medico deve astenersi da trattamenti dai quali non possano derivare benefici per il paziente o un miglioramento della sua qualità di vita (accanimento terapeutico). È tuttavia risaputo che nella pratica medica quotidiana ancora oggi il curante si sente autorizzato a fare di tutto per prolungare il morire, forse anche per il timore di ricadere in responsabilità penali.
La cura è, dunque, da considerarsi adeguata non solo quando procura un momentaneo sostegno vitale,
ma quando ha riflessi positivi sulle condizioni generali del paziente, che non è un insieme di organi malati, ma una persona che soffre. Ciò non significa escludere l’eventualità che sia lo stesso malato a richiedere al medico di proseguire le cure volte a prolungare la sopravvivenza, nel qual caso la richiesta va soddisfatta, nei limiti della possibilità.
È auspicabile, peraltro, che l’équipe che ha in carico il malato si impegni a conoscere la volontà del paziente sulle cure attuate in quel momento, ma anche su quelle che possono rendersi necessarie in una fase più avanzata della malattia, soprattutto se si prevede come imminente la perdita dello stato di coscienza.
8. Chi sta morendo ha diritto ad esprimere le sue emozioni
Nella società attuale prevale un controllo esasperato della sfera emotiva, come se certi stati d’animo dovessero sempre e comunque essere tenuti nascosti. Questa autocensura, senz’altro dominante per tutto il corso della vita, sembra accentuarsi quando ci si trova di fronte alla morte e al morire. Ma il mondo emozionale è parte integrante dell’individuo, e bloccare le emozioni significa, per chi sta per morire, porre in atto un meccanismo di negazione e di dissimulazione (rifiutare di sentire ciò che si sente) tanto gravoso quanto ingiustificato alla fine della vita.
Non si può inoltre escludere che attraverso l’espressione delle emozioni abbia luogo un’elaborazione della situazione stessa.
Diversi studi mostrano, infatti, che, se è vero che i sintomi depressivi e l’ansia sono comuni nei morenti e ne influenzano la qualità di vita, è altrettanto vero che la comprensione delle difficoltà e dei conflitti emozionali dei morenti da parte di curanti e famigliari disposti ad instaurare rapporti non viziati da reticenze e da dissimulazioni, può alleggerire l’angoscia e diminuire la sofferenza di chi muore.
9. Chi sta morendo ha diritto all’aiuto psicologico e al conforto spirituale, secondo le sue convinzioni e la sua fede
L’affermazione di questo diritto può sembrare superflua. Eppure, riaffermare questo diritto serve a riproporre, cercando anche di dare una risposta, una domanda talmente elusa nella società attuale - come morire? - da essere stata quasi messa da parte.
I più approfonditi studi sulle fasi finali della vita hanno posto in luce come nel vissuto psicologico dei malati prossimi alla morte vi siano diverse fasi, dalla fase della negazione (il morente rifiuta la realtà), a quella della collera nei confronti di tutto e di tutti (perché proprio io?), al patteggiamento (il morente “contratta” con la morte o con Dio: riuscire a vivere fino al matrimonio del figlio, veder nascere il nipotino...), alla depressione, e infine all’accettazione. È in quest’ultima fase che sono frequenti le conversioni religiose, a dimostrazione del fatto che la consapevolezza della propria mortalità fa emergere un dolore spirituale difficile da definire, ma senz’altro legato al trovarsi di fronte alla propria finitezza, difficile da accettare anche per chi ha un credo religioso e ha il conforto di sperare nell’Aldilà. C’è, dunque, un bisogno di sostegno e di conforto che deve essere riconosciuto e rispettato.
10. Chi sta morendo ha diritto alla vicinanza dei suoi cari
Il diritto del morente alla vicinanza dei suoi cari nasce dal fatto che tale vicinanza ha una determinante influenza positiva sul suo modo di essere e divivere l’ultima fase della sua vita, gli affetti possono “riempire la vita”, dando quel conforto che ancora può rimanere, negargli questa relazione di vicinanza equivarrebbe quindi a procurargli un vero e proprio danno. Va ricordato che se tradizionalmente i “cari” si identificavano con i famigliari, nella società attuale altrettanto, e talora anche più importanti, sono diventate le relazioni degli affetti. Ora “caro” non indica necessariamente il parente, bensì la persona con cui si ha una consonanza di vita.
11. Chi sta morendo ha diritto a non morire nell’isolamento e in solitudine
La rimozione della morte, diffusa in società, quali quelle dei paesi industriali avanzati, nelle quali i miti della produttività e dell’efficienza si sono intrecciati con le aspettative alla guarigione sempre e comunque conseguibile, alimentate da una medicina tanto incline ad enfatizzare i propri successi, quanto a dissimulare i propri limiti, ha, come si è già osservato in precedenza, la sua più concreta e drammatica manifestazione nell’allontanamento dal contesto sociale, e quindi nella determinazione di una sorta di morte sociale, antecedente alla morte biologica, di quei soggetti che la medicina si dichiara impotente a guarire.
In una società caratterizzata dal prevalere del conformismo, della massificazione, dalla tendenza ad uniformare abiti mentali e stili di vita, la solitudine può assumere la valenza positiva di consapevole scelta esistenziale propria di chi, non riconoscendosi nei modelli di comportamento e nei valori prevalenti nella società, ha il coraggio di compiere scelte controcorrente in ogni fase della propria vita. Ma per i malati prossimi alla morte la solitudine non è sempre il risultato di una scelta riguardo al come morire, del tutto legittima e meritevole di rispetto, quand’anche non condivisa dai più. È , piuttosto, l’effetto, indesiderato e produttivo di grandi sofferenze, dovuto all’operare di complessi fattori culturali e strutturali.
12. Chi sta morendo ha diritto a morire in pace e con dignità
La malattia inguaribile è sempre più spesso trattata come se fosse “lo scandalo massimo”: deve essere isolata, nascosta, rimossa anche dalla coscienza; ma questo atteggiamento, diffuso nei curanti e in generale nel pubblico, porta ad attitudini e comportamenti “deviati”, rispetto alle reali esigenze e richieste della persona malata come: accanimento terapeutico, oltranzismo diagnostico, veicolazione di messaggi che creano false illusioni sulla positiva evoluzione della malattia.
Per questo il contesto, nel quale il malato prossimo alla morte, trascorre parte o tutto il tempo del proprio morire è oggi identificabile con strutture di ricovero, ospedali pubblici o privati, dove spesso sono del tutto disattesi i suoi bisogni. Riaffermare quindi il diritto a “morire in pace” ha il significato oggi di permettere al morente di trascorrere i suoi ultimi giorni nel luogo che preferisce, dove più abbia la possibilità di riconciliarsi con tutto ciò che sta lasciando, evitandogli qualsiasi intervento che non sia in armonia con le sue scelte. In questa prospettiva, per garantire al malato le più ampie possibilità di scelta, vanno promosse e sostenute attività curativo/assistenziali, che favoriscano interventi di supporto presso diverse realtà: dal domicilio, al ricovero ospedaliero o in letti di Servizi di cure palliative, dedicati ai malati morenti o in strutture “ad hoc” - come gli hospice.
Mi rendo conto che l'argomento è tanto silenzioso quanto ostico anche semplicemente da ascoltare, ma ho ritenuto fosse importante dare voce ai morenti perché sono problematiche umanitarie che riguardano tutti. Stavolta non si parla di Africa, ma di una disumanità che è presupposto sociale della nostra realtà, è bene quindi porsi degli interrogativi. Non credo che esistano delle risposte vere e proprie sul fine vita, ancor meno se questo dovesse essere il nostro, ma sono convinta che anche sempliceme porsi degli interrogativi in merito, possa aiutare a considere come parte del percorso di vita l'atto del morire.
Lucia Capparrucci
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