mercoledì 12 maggio 2010

Matteo Pagani di Emergency racconta il suo incubo afgano

"Chiedevo: mi dite perché mi avete arrestato?"
Matteo Pagani di Emergency racconta il suo incubo afgano

di Matteo Pagani
 

Ero seduto sul letto della mia cella con la testa tra le mani. In due metri per quattro, a ragionare mesto su come uscire da un incubo kafkiano. Nono giorno di carcere, quinto a Kabul, nel cervello una matassa di pensieri. Ad un tratto, senza alcuna avvisaglia, vedo con la coda dell’occhio il profilo del mio carceriere afgano. “Buru, buru”. Qualche parola, dopo cinque mesi in quel paese, avevo iniziato a capirla. E quei due suoni “Buru, buru”, seguiti da un comprensibilissimo “you’re free”, mi hanno lasciato all’improvviso senza fiato per respirare. Ero libero, finalmente libero, dopo essermi visto cadere addosso l’accusa di essere un terrorista internazionale, in una Nazione di cui sapevo poco e nella quale ero arrivato con la misteriosa qualifica di logista-amministratore nella struttura di Lashkar Gah di Emergency. Un ruolo apparentemente incomprensibile che flirtava con il concetto flessibile di tuttofare. Per uno come me, partito da una famiglia benestante di Roma nord e poi passato da un master in Economia a Londra, ai tanti sud del mondo dominati da fame, droga, povertà e disperazione, interpretarlo conciliava ormai con la mia seconda pelle. Aiutare gli altri, ormai, era diventata un’altra parte di me. Elettricità, tubature, pittura, radio, Internet, tutto ciò che non era direttamente connesso con le pratiche mediche dell’ospedale, toccava a me. Dovevo far sì che tutti fossero felici. Non mi pesava.

L’INIZIO DELL’INCUBO


Ho viaggiato in tutto il pianeta. Ho visto le villas miserias di Caracas e gli avamposti boliviani in cui i bambini sniffano colla fin dai sei anni. Le prepotenze subite dalle donne senza possibilità di difendersi e le culture altre, quelle che ingannevolmente filtrate dai televisori, non si fanno cogliere. Ho osservato tramonti e albe, pianti e sorrisi, ma le cose che ho visto in Afghanistan, non le avevo mai viste in nessuna altra parte del mondo. Corpi dilaniati, brandelli, la demenza della guerra stesa su un letto, senza possibilità di ritorno, salvezza, redenzione. A Lashkar Gah, la vita di tutti i giorni era stretta nel passaggio tra la nostra casa e l’ospedale di Emergency. Quattro chilometri scarsi, con il divieto assoluto di fare altro che non fosse, una volta usciti dall’ospedale, chiudersi con i miei compagni d’avventura per sdrammatizzare l’orrore cui i nostri occhi erano quotidianamente costretti. La nostra casa, una dimora umile, era vigilata giorno e notte da genti non armate, ma la paura è una sensazione che non ho mai avuto. Tutt’al più ci dicevano di chiuderci in casa, ma l’idea di avere timore confligge con la missione di un ragazzo neanche trentenne che attraversa i continenti per dare una mano a chi te lo chiede. Noi aiutavamo tutti. Poliziotti, combattenti, civili. Salvare la vita alla gente. Quello contava. Senza tessere, appartenenze, giuramenti. A cinque mesi e dodici giorni dal mio arrivo in Afghanistan, mi arrestano. Ero partito il 3 novembre del 2009 e all’inizio della primavera, nelle prime ore di un pomeriggio apparentemente quieto, quello del 10 aprile, mi ritrovo in un brutto sogno.

IL GIORNO DEL FERMO

Era stata una mattina molto tranquilla. Dal quartier generale Lash arriva una telefonata. “Chiamate tutti quanti gli operatori internazionali e andate a casa”. Ci avvertivano, l’aria stava diventando pericolosa. Se una persona del luogo ti dice una cosa del genere, non ti fai troppe domande. Siamo andati a casa, abbiamo mangiato e atteso nuove notizie. L’allarme pareva cessato, ma dal pronto soccorso di Lashkar Gah, riceviamo un’altra chiamata: alla cornetta, un chirurgo afghano. “Ci sono le forze armate” urla. Con Marco Garatti e Matteo Dell’Aira, siamo saliti in macchina. Andare a vedere di cosa si trattasse, ci era sembrata l’unica soluzione plausibile. Prima di arrivare al’ospedale, ci fermano. Ci fanno scendere, sequestrandoci cellulari e radio. Prendono le manette, le legano ai polsi. Erano eccitati, i poliziotti. E in quella agitazione non si capiva nulla. Alle nostre domande, ai nostri perché, opponevano il silenzio. Ci riportano in ospedale facendoci sedere su tre panchine diverse. Non potevamo parlare tra noi. In qualche modo, l’isolamento inizia in quell’istante. Poi dopo un’ora infinita, portano via i miei compagni. Io rimango in ospedale. Mi ordinano di girarmi verso il muro. Senza informazioni. All’improvviso, arrivano ad Emergency anche i militari inglesi. Gli afghani mi portano verso l’uscita. Nessuno mi dice niente. Finisco in carcere. La prima notte dormo per terra. Senza spiegazione alcuna. Vedo Garatti e Dell’Aira solo attraverso lo spioncino. La mia cella è la più vicina al cesso. Osservarli, integri, somiglia a una luce. Aspetto che sorga l’alba. Il giorno dopo c’è il primo interrogatorio. Mi chiedono se ho avuto comunicazioni con i talebani. Ho risposto sempre di no. Stupito, incredulo, sgomento: “Mi dite perché mi avete arrestato?”

ARMI E VIDEO

A quel punto, metallici, i poliziotti rispondono: “In ospedale abbiamo trovato quattro bombe a mano, due giacchetti esplosivi e due pistole”. Armi che nessuno di noi, se non in video, ha mai visto. È stato come camminare a occhi aperti in una pièce di Ionesco. Ogni cosa mi pareva assurda. Fino a poche ore prima scherzavamo a casa, per rimuovere immagini troppo crude per chiunque. Dopo, soltanto dopo ho letto che volevano fare un attentato nella città visto che il governatore avrebbe potuto recarsi in visita. Anche ammesso che fosse vero, attribuirlo a me e agli altri cooperanti, era folle. Oggetto dell’attentato, sarebbe stato il governatore. Un nostro amico, un signore che ci aveva sempre dimostrato una disponibilità non comune. All’inizio, nei primi giorni senza risposte, ho pensato: “Qui finisce male”. La mente andava velocissima. Ti ritrovi in carcere da innocente e ti chiedi se esserlo basti ad uscirne. Come in quel vecchio film di Sordi, in cui lo fermano per un controllo e poi lo precipitano all’inferno. “Non può essere che il solo fatto di essere innocente, mi scagioni”. Poi ho saputo che i soldati, armati fino ai denti, a Lashkar Gah controllavano i computer cartella per cartella.

LA CALUNNIA

Non ci hanno trattato male, non hanno fatto grandi pressioni psicologiche e sicuramente nessuna fisica. Durante la prigionia, abbiamo incontrato l’ambasciatore italiano. Una brava perona impigliata in un colloquio formale. Una scena giòà vista al cinema in cui carcerieri e diplomatici, al di là della loro volontà, concorrevano a un abusato, inevitabile gioco delle parti: “Non gli abbiamo torto un capello”. “Faremo di tutto per tirarvi fuori”. In quei nove giorni abbiamo fumato sigarette, riflettuto, visto il peggio come un’ipotesi non lontana. Quando mi hanno detto che era finita, sono uscito dalla cella abbracciando i miei amici. Senza discorsi. Certe volte sono sommamente inutili. Ho saputo che alcuni politici, con in testa il ministro La Russa, hanno speso nei nostri confronti parole atroci. Epiteti, insulti, insinuazioni. Si era sparsa la notizia che avevamo confessato le nostre responsabilità. Una bufala foriera di episodi molto sgradevoli. Ci hanno additato, giudicato, condannato in televisione. “Mele marce”, il rilievo più dolce. Ma questo l’ho saputo solo dopo. In cella non avevamo il televisore al plasma. Ho pensato alla querela, ma non è facile. L’ufficiale dell’intelligence inglese, dopo la scarcerazione, ci ha ricevuti: “Mi hanno portato accuse contro di voi, le ho verificate e le ho trovate del tutto infondate”. Forse la stessa prudenza, avrebbero potuto averla anche i media. All’areoporto di Dubai, ho incontrato un signore. Aveva un fare insopportabile. Aggressivo, protervo, saccente: “Tu sei di Emergency?”. “Sì”. “La smettete di andare in giro a far danni? Tanto poi deve intervenire il governo e pagare per salvarvi”. Non ho replicato. Però l’idea che per un pezzo di paese, io sia un terrorista mi fa incazzare, non sorridere. Se un giorno riapriranno l’ospedale di Lashkar Gah, tornerò. Senza dubbi, ripensamenti, titubanze. Nel darsi pulsa una felicità assoluta. È uno stato dell’anima. Quando l’hai toccato, tornare indietro è una violenza. Dopo due mesi a Roma, la mia città, inizio a guardare fuori. Partire. Aiutare, conoscere. Sono nato per quello. Non desidero altro.

da il Fatto Quotidiano dell'11 maggio 2010 (link)



2 commenti:

samuele bruno ha detto...

tutto ciò,è terribile,grazie per il tuo,il vostro coraggio.Solo una domanda,ma ai nostri feriti,i nostri,oppressi,ai nostri bambini anziani,donne...chi ci pensa?Un mio pensiero,scusate,ma penso che se vuoi fare del bene basta uscire dalla porta di casa e guardarsi intorno,senza togliere che al mondo c'è chi soffre di più di noi.Ma questo andiamo a dirlo agli anziani soli ai morenti nelle corsie di un ospedale a chi non arriva a fine mese,a chi senza lavoro si toglie la vita,a chi la fà franca in barba alla legge...e poi chi ne ha più ne metta.Scusate lo sfogo,grazie x quello che fate siete grandi.

Lucia ha detto...

Ciao Samuele, il tuo punto di vista è piuttosto condiviso, ho letto diversi commenti in giro i cui contenuti erano simili a quelli da te espressi.
Personalmente credo che guardare fuori della porta di casa e aiutare chi si incontra ed è in difficoltà o volare dall'altra parte del globo per svolgere la medesima attività, siano in fondo la stessa cosa vale a dire volontariato, cambia lo scenario, ma rimane il donarsi e lavorare per l'altro.
Dall'altra parte del mondo non ci possono volare tutti per tendere una mano, ma fuori della nostra porta di casa, la possibilità credo che l'abbiamo un po' tutti e non mancano le associazioni che si occupino dei settori più disparati e disperati anche nelle nostre realtà. Aiutare nel nostro microcosmo offre oltretutto la possibilità di rendersi utili senza dover sacrificare tutta la propria vita alla causa, dato che il più delle volte basta un impegno costante piuttosto che quantitativamente massivo.
Per aiutare non servono grandi associazioni o visibilità, basta la volontà del singolo di attivarsi; nella maggior parte dei casi l'operato del singolo è sufficiente a fare la differenza per l'altro che si ha davanti e te lo dico con cognizione di causa avendolo sperimentato sia come volontaria che come persona cui veniva dato aiuto (i due ruoli poi non sono così rigidi se si osserva bene).

Un saluto e grazie per lo "sfogo" decisamente utile.
Lucia

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